Il viaggio inaugurale della Colomba Bianca
La Colomba Bianca, i guastatori nazisti, i solai ballerini di molte case di Capracotta e la leggenda (da sfatare) che riguarda la mancata ricostruzione di una ferrovia sono i protagonisti di una curiosa storia, non ancora completamente scritta, indissolubilmente legati tra loro in un intrigo diabolico di eventi storici in apparenza disomogenei. Il testo ha vinto la prima edizione del Concorso letterario “Capracotta… si racconta”, organizzato dall’amministrazione comunale e dalla Pro Loco di Capracotta nell’anno 2010.
La Colomba Bianca
Il notaio Filippo Bonavolta il 25 Luglio del 1909 registrò l’atto costitutivo della SFAP, Società Ferroviaria Agnone Pescolanciano su progetto dell’ingegnere Federico Sabelli. Il percorso lungo 37.435 Km. partiva da Agnone a 800 m. slm e giungeva a Pescolanciano a 762 m. slm; il punto più alto del percorso era ai 1.100 m. slm di Rocca Tamburri mentre il più basso era ai 650 m. slm del Verrino. La prima pietra fu posta il 29 ottobre 1911; la prima vettura arrivata a Pescolanciano il 16 maggio 1914; il 23 dicembre 1914 alle ore 11 “la prima vettura di prova, bianca come una magica colomba, arrivava in Agnone in mezzo a due fitte ali di popolo commosso ed esultante” (Eco del Sannio del 31 dicembre 1914); il 6 giugno 1915 avvenne l’apertura ufficiale con il trasporto gratuito dei giovani chiamati alle armi per la prima guerra mondiale. Per completare l’intero tragitto la Colomba Bianca impiegava in media 3 ore, salvo imprevisti; d’inverno spesso anche i passeggeri davano una mano per liberare i binari da cumuli di neve. Era una strana colomba bianca che volava per le valli del Verrino e del Trigno, che non tubava ma annunciava il suo arrivo alle fermate con un fischio di sirena. In un periodo in cui gli orologi erano un lusso riservato solo ad una ristretta cerchia di possidenti, il fischio della locomotiva era l’orologio e l’orgoglio di tutti e scandiva le ore del giorno nelle quattro corse quotidiane. Lungo il percorso c’erano 6 piccole stazioni con fabbricati e 4 fermate; a Tre Termini c’era anche la stazione Vastogirardi-Capracotta. Il percorso era molto vario e lambiva terreni coltivati, vigne, uliveti, querceti e abetaie; bellissimo e affascinante era il paesaggio sia d’estate che d’inverno. La SFAP era una società per azioni il cui capitale sociale era fissato in più di 5000 azioni da 100 lire ciascuna; gli azionisti erano di vari paesi e la maggioranza logicamente di agnonesi essendo all’epoca Agnone una vera e propria città industriale; c’erano anche azionisti di Capracotta e precisando: Banca di Capracotta con 5 azioni; Luigi Campanelli con 3 azioni; Amatonicola Conti con 1 azione; Gregorio Conti fu Ruggiero con 3 azioni; Tommaso Conti con 20 azioni; Claudio Conti di Ettore con 1 azione; Giovanni Conti fu Agostino con 3 azioni; Guglielmo Conti fu Croce con 2 azioni; Michele Falconi fu Gregorio con 1 azione; Leonardantonio Falconi fu Pasquale con 10 azioni; Vincenzo Ianiro di Giovanni con 1 azione. La società a lungo andare si in gravi difficoltà economiche; già nel 1926 si era accumulato un passivo enorme che portava dritto al fallimento che avvenne, dopo varie peripezie tra esercizi provvisori, bilanci in rosso, riduzione di spesa e licenziamento di parte degli operai; il 30 Agosto 1940, il curatore fallimentare della SFAP cedette per 100.000 lire l’esercizio della ferrovia alla SAM; questa grave situazione è stata effettuata soprattutto perché il podestà agnonese dell’epoca rifiutò l’acquisto, in conto del comune, della società e fece svanire anche il tentativo degli operai disposti a subentrare nella conduzione della società; la società fu dunque ceduta alla SAM, Società Automobilistica Molisana e subito la procedura di fallimento e conseguenza acquisizione sospese in attesa di direttiva da parte della Corte di Appello di Napoli perché imprevedibilmente i beni immobili non erano stati inclusi nella pratica fallimentare e nell’attivo della SFAP. Nel frattempo la Colomba Bianca non era più tale perché era diventata di color verde e viaggiava sempre più vuota: erano troppe le tre ore di percorrenza, il trasporto su gomma era diventato un valido antagonista ed aveva preso il sopravvento.
I guastatori nazisti
L’ultimo viaggio per poco non si concluse in tragedia; il 13 novembre 1943 una pattuglia tedesca fermò, armi alla mano, la motrice condotta da Michele D’Aloise che abbandonò il posto di guida solo dopo che un ufficiale tedesco, pistola in pugno, al grido di “kaputt”, stava per ucciderlo. Le motrici e tutto il materiale viaggiante furono incendiati, poi venne distrutta tutta la linea aerea e con uno speciale carrello munito di un robusto rostro, furono divelte e spezzate a metà tutte le traversine in legno sull’intera linea. Successivamente vennero prese di mira l’officina e la centrale termica; ed a questo punto vale la pena riportare quanto mi riferì l’amico Cesare di Ciocco, figlio del custode della Centrale all’epoca della distruzione…«Come vedi, non tutta la Centrale saltò in aria; una buona metà è ancora e tutto il merito fu di mio padre che, afflitto e disperato, mentre i genieri tedeschi vano il fabbricato, si aggirava qui intorno quasi in piedi ancora protegge la sua creatura dall’imminente; ad un certo momento, un ufficiale tedesco, che parlava italiano, anche se stentatamente, gli fece cenno di avvicinarsi e gli chiese se voleva salvare una parte dell’edificio; immaginati la gioia di mio padre! E così l’ufficiale gli indicò non solo una finestra sul retro che avrebbe lasciato aperta ma anche quale miccia tranciare non appena la colonna tedesca, dopo aver acceso la miccia, si sarebbe mossa. Lo avvertì che aveva pochissimo tempo per entrare e per tagliare la miccia, che rischiava di saltare in aria o di essere scoperto. E così nascosto tra i pini non appena vide la colonna muoversi, scavalcò letteralmente la finestra, tranciò la miccia e fece in tempo ad allontanarsi. I tedeschi sentirono il boato, videro la colonna di polvere che saliva al cielo e non si accorsero di nulla; ed ecco perché questa parte del fabbricato dov’erano la turbina a vapore e gli accumulatori porta ancora i segni dell’esplosione; sono rimasti in piedi le quattro mura il tetto e si vedono ancora i punti di attacco delle maestose volte a botte». E così la Colomba Bianca dipinta di verde, non volò e non fischiò più: la furia nazista aveva cancellato un sogno. Restarono lungo la linea i 75 Km. di binari abbandonati e tutte le traversine spezzate. ed ecco perché questa parte del fabbricato dov’erano la turbina a vapore e gli accumulatori porta ancora i segni dell’esplosione; sono rimasti in piedi le quattro mura il tetto e si vedono ancora i punti di attacco delle maestose volte a botte». E così la Colomba Bianca dipinta di verde, non volò e non fischiò più: la furia nazista aveva cancellato un sogno. Restarono lungo la linea i 75 Km. di binari abbandonati e tutte le traversine spezzate. ed ecco perché questa parte del fabbricato dov’erano la turbina a vapore e gli accumulatori porta ancora i segni dell’esplosione; sono rimasti in piedi le quattro mura senza il tetto e si vedono ancora i punti di attacco delle maestose volte a botte». E così la Colomba Bianca dipinta di verde, non volò e non fischiò più: la furia nazista aveva cancellato un sogno. Restarono lungo la linea i 75 Km. di binari abbandonati e tutte le traversine spezzate.
I solai ballerini
Dopo lo sfollamento, nella primavera del 1944, i capracottesi tornarono al paese distrutto e cominciarono a raccogliere tra le macerie tutto quello che poteva essere utile per la ricostruzione. Qualche trave, le pietre, le tavole e perfino la sabbia (la rena). Gli altri materiali necessari erano acquistati altrove, soprattutto il cemento e la calce viva. Domenico Di Nucci, dopo aver invitato un esperto nella produzione della calce, Z’ Rezzière da Canzano, cominciò a produrre dalle tante fornaci (dette calcare) che vennero costruite in vari posti dell’agro di Capracotta. Impegnato in questa micro impresa, con la famiglia ospitata in una casa presa in affitto, trascurò la ricostruzione della sua casa alla Fundione, fino a quando i due fratelli Matteo, Nicola ed Enrico, non iniziarono la ricostruzione delle loro abitazioni nello stesso gruppo di case. Allora Domenico deciso che era il momento di armarsi di coraggio e affidò i lavori a una squadra di esperti muratori: la loro micro impresa, “LA DISPERATA”, era costituita dai mastri Donato Vizzoca, Innocente Marinelli, Quirino Di Tanna e Candido Ciccorelli; i figli Carmine, Mario e Giovanni si trasformarono in manovali mentre insieme all’altro figlio Italo si dedicò a preparare tutta la malta occorrente. In breve tempo furono completate le quattro mura perimetrali e il tetto; erano finiti i soldi e la casa per un po’ restò così. E’ bene precisare che per la ricostruzione, una differenza di quanto avviene oggi a seguito di grandi calamità, non ci furono contributi e sovvenzioni; ogni famiglia dovette rimboccarsi le maniche e tutte le spese cercando di risparmiare il più possibile. Purtroppo anche un grave incidente sul lavoro turbò non poco la pesante atmosfera che si respirava a Capracotta: nella ricostruzione di una casa incendiata, a San Giovanni, proprio nell’ottica di salvare il salvabile, a lavori quasi ultimati, una parete che sembrava stabile e robusta, improvvisamente crollò travolgendo l’impalcatura e Candido Ciccorelli. In un contesto sociale in cui tutti conoscevano tutti, in cui i vincoli di parentela erano estremamente ramificati, l’improvvisa scomparsa di un valido mastro rappresentò una grande tragedia non solo per la famiglia ma anche per la comunità tutta. Ed ecco che in punta di piedi la Colomba Bianca entra nell’intreccio con la storia di Capracotta. Ognuno cercava di arrangiarsi alla bene e meglio; per costruire i solai occorrevano robuste travi di legno, costose e non facili da reperire; sottovoce qualcuno consigliava altre strade. Domenico Di Nucci ne ebbe la conferma quando, qualche tempo dopo, raccoglieva il fieno nel suo prato della Vecènna, fu avvicinato da uno strano tipo; disse di chiamarsi Michele G. e additando la casa alla Fonte Giù (adesso Via Trigno) gli chiese se era disposto ad acquistare, a Staffoli, alcuni binari della ferrovia come travi di ferro per costruire i solai. Era ben informato perché la casa era ancora un guscio vuoto. Alla richiesta di informazioni ed alle perplessità, Michele rispose che altri capracottesi avevano già utilizzato i binari; chi li acquistava doveva portare le misure precise e pensare al trasporto da Staffoli. Venne pattuito il prezzo di 7. 000 lire e la stretta di mano suggellò l’accordo. E così 7 travi da 11 metri furono utilizzati per il solaio della stalla della sua casa. Non fu agevole il trasporto dei binari che pesavano complessivamente circa 18 quintali. Apparve già in corso di costruzione che quei binari non erano poi molto adatti allo scopo; nonostante sia utilizzato in coppia per costruire voltine di mattoncini a tre fori con gesso, la grande elasticità richiese subito il rinforzo con pilastri di mattoni; ma, nonostante i pilastri, i solai erano molto elastici e davano la sensazione di essere ballerini. I carabinieri, non appena il traffico divenne troppo palese, fecero un sopralluogo in tutte le case costruite o in ricostruzione e portarono in caserma per accertamenti tanti capracottesi tra i quali Mario Di Nucci suo figlio; furono interrogati e rilasciati; sembrò che la cosa finisse lì ma la giustizia prese il suo tempo e il suo corso e Domenico e Mario furono convocati al Tribunale d’Isernia come imputati per incauto acquisto, insieme ad altri 29 capracettesi. Si ritrovarono faccia a faccia con Michele G., che si presentò vestito come uno straccione, con un paio di pantaloni rattoppati, una maglia sbrindellata, le scarpe scalcagnate ed addirittura con i due calzini di diverso colore. Nonostante l’abbigliamento, con sentenza N° 347 del 5 dicembre 1951, Michele G. fu condannato ad un anno e sei mesi di reclusione per furto aggravato, avendo venduto le rotaie, a più riprese, affermando di essere autorizzato a farlo dalla SAM. Per tutti i capracottosi non si procedette per intervenuta amnistia; invece Mario Di Nucci fu assolto per non aver commesso il fatto.
La leggenda da sfatare
Circolava nel dopoguerra e ancora oggi la leggenda che la mancata creazione della SFAP fosse da attribuire all’utilizzo dei binari della ferrovia come travi per solai, soprattutto da parte dei capracottosi; la storia però non si nutre di dicerie e fadonie. I documenti invece attestano altro: dopo la guerra vi furono emissioni e pressioni per ricostruire la Agnone- Pescolanciano; l’allora su. Remo Sammartino, tentò di far rientrare la SFAP tra le opere da ricostruire ma desistette quando si rese conto che la legge sulla ricostruzione imponeva di ricostruire il tutto esattamente secondo il progetto iniziale che era ormai obsoleto e non al passo con la tecnologia del momento; si tratta di ricostruire una cattedrale nel deserto senza nessuna prospettiva economica per il futuro. poi, ad un’interrogazione presentata dall’on. Francesco Colitto, la risposta dell’allora Ministro dei Trasporti on. Aragona fu negativa in quanto la Commissione per il piano regolatore delle ferrovie, il 18 giugno 1947, inserì la SFAP nella terza categoria, ossia tra quelle non indispensabili e che essere abolite con proprietà automobilistici. Nei documenti ufficiali non c’è dunque alcun traccia del danno arrecato dai capracottesi; la verità è che la ferrovia non fu ricostruita solo per scelta, discutibile, del governo di allora. Il campanilismo irragionevole che per tanto tempo ha compromesso i rapporti tra i comuni dell’Altissimo Molise, si è spesso nutrito di fandonie che una larga schiera di persone diffuse ad arte per interessi personali, per alimentare ulteriori discordie e per poter giustificare qualcosa di ingiustificabile! La voce che attribuì a tal danno la generazione della SFAP fu figlia di quel mostro che sarebbe ora di sradicare!
Domenico Di Nucci