Negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale, quasi sempre mettere un piatto decente a tavola era un problema di non facile soluzione. Infatti, i lavori a cui si sottoponevano tutti i componenti della famiglia erano pesanti e di conseguenza l’alimentazione doveva essere sostanziosa. Anche se il mais non si produceva a Capracotta, ogni famiglia si recava al mulino e faceva provvista della farina gialla.
Mentre déndre a re pulz’nètt (piccola pentola a tre piedi e manico lungo) si preparava il condimento a base di pezzi di guanciale o costatine di maiale o salsiccia, iniziava la preparazione della polenta che era lunga e faticosa: déndre a ne cuttrièglie (in un piccolo paiolo) appeso alla catena della ciummenèra quando l’acqua arrivava a bollore, si seminava un pugnetto di farina e che re canniéglie pe le sagne (con il matterello), si girava in continuazione per evitare che la farina non in movimento facesse dei grumi e così un poco di farina e via a girare: ogni tanto anche papà si stancava e mamma gli dava il cambio. Logicamente tanta più farina era déndre re cuttrièglie (era nel paiolo) tanto più sforzo ci voleva per girare l’impasto che via via diventava più consistente. Durante la cottura spesso si aggiungevano fagioli cotti o fave cotte.
Alla fine, quando la polenta era pronta, si serviva in vari modi. Il più semplice era fare un bel mucchietto fumante sulla tavola. Si allargava ed al centro si versava il condimento, dove veniva intinto un pezzettino di polenta ritagliato con la forchetta.
Sul fondo de re cuttrièglie si formava la scurpèlla, crosta dura e croccante non facile da staccare ed era quella la parte preponderante del mio pasto a base di polenta.
Domenico Di Nucci