Capracotta ieri
Luglio 1964: comincia la prima estate, a Capracotta, della mia nuova vita da coniugata. All’epoca le case erano ancora piene di gente, i negozi di alimentari numerosi e frequentati; c’erano latterie, rivendite di vino, allevamenti di mucche, pecore e cavalli, sarte bravissime, ricamatrici, calzolai rinomati, agricoltura praticata su larga scala con coltivazione di lenticchie, patate, fagioli e anche grano. La transumanza era ancora esercitata regolarmente. Le scuole, elementari e medie, pullulavano di bambini vocianti che attraversavano il paese, la mattina e all’uscita; c’erano le suore che curavano i più piccoli e insegnavano l’arte del ricamo alle ragazze da marito. Era, insomma, tutto un fervore di vita che dava sicurezza e stabilità e che non faceva sentire l’isolamento che tanto colpisce i paesi di oggi. Le donne si riunivano, d’estate, fuori all’aperto fino a sera tarda; d’inverno, davanti a grandi fuochi scoppiettanti nei camini, si facevano compagnia ragionando tra loro di questo e di quello. Televisioni, poche; giornali in qualche casa, sempre, ma con poca scelta. Vita semplice, modestia di comportamento, morigeratezza di costumi, osservanza piena alle leggi dell’etica e ai precetti della religione. D’estate il paese era meta ricercata di villeggianti che affollavano l’albergo Vittoria e davano lustro al centro alto molisano, sito a 1421 m/slm. Questa era la Capracotta che io ho trovato nel 1964.
La diaspora
I primi anni ’60 non avevano ancora conosciuto l’esodo biblico che si sarebbe verificato di lì a poco, anche se qualche avvisaglia del disastro si era già manifestata. Le famiglie che avevano ragazzi in età scolare, dopo la 3° media, pur nel grande dolore dell’abbandono, trovavano logico lasciare il paese per trasferirsi soprattutto a Isernia, Lanciano, Agnone o altrove, dove fittavano case in economia e dove si stava tutti, grandi e piccoli, con l’assistenza della mamma o della nonna.
Alle feste si tornava in paese, poi, a poco a poco, anche questa abitudine sparì e si preferì rimanere, anche per ragioni di clima e di economia, nei luoghi prescelti.
Così, col passare degli anni, un po’ alla volta Capracotta perse, uno dopo l’altro, molti dei suoi figli. Le mete più disparate: Roma, col suo grande e esteso hinterland, Milano, Torino, Firenze, paesi più vicini come San Salvo, Termoli, Pescara furono le mete della diaspora. E poi Svizzera, Francia, Germania, Inghilterra. Dovunque ci fosse un lavoro e una sistemazione conveniente, il popolo capracottese emigrò, senza voltarsi indietro, a fare i mestieri più disparati. Le case furono lasciate e chiuse, gli animali venduti, i campi abbandonati, i ricordi e gli affetti accantonati (e qui non vogliamo considerare la grossa colonia pugliese già emigrata molti anni prima, come pastori e carbonai). I ragazzi crebbero nelle città, ebbero la possibilità di studiare: divennero medici, ingegneri oppure tecnici, operai nelle fabbriche, imprenditori, impiegati. Amavano anche loro la terra dei padri; ma un po’ la lontananza, un po’ i matrimoni con le ragazze della città, la consuetudine del lavoro e dei rapporti sociali finirono col mitigare gli entusiasmi e limitare i ritorni.
Le persone
Quando, giovane sposa, mi trasferii dalla natia Agnone a Capracotta, ebbi modo subito di conoscere tanta gente: parenti, amici, persone comuni che volevano incontrare la sposa forestiera di un valente giovane appartenente alla buona borghesia locale. Erano tutti curiosi di guardare o ammirare la bella ragazza agnonese che era arrivata fra loro e che trattava tutti con cordialità e semplicità di modi.
I primi tempi fu difficile per me ricordare i volti e i nomi di tutti, per cui, senza scontentare nessuno, fingevo di ricordare e mantenevo una conversazione anonima in attesa di un segnale, di una parola che mi desse qualche spunto per mettere a fuoco la persona che avevo di fronte. Frasi come: “A casa tutti bene?” facilitavano il compito, per me arduo, di inserirmi nel contesto e di ricordare nomi e fatti già partecipatimi. Presto imparai anch’io a far parte dei questi gruppi che sostavano in piazza, s’incrociavano, poi proseguivano, per fermarsi subito dopo con altre comitive. Così, tra pic-nic, gite in montagna, passeggiate per il corso o nel verde della natura rigogliosa, l’estate passò ed io imparai, finalmente, molti nomi, fui in grado di riconoscere molti visi, entrai in confidenza con tante persone giovani ed anziane.
Mariangela
Tra le altre persone conobbi Mariangela, donna del vicinato, che mi fece un’enorme impressione per la sua intelligenza e vivacità di carattere. All’epoca aveva 60 anni o poco più; vedova per due volte, gestiva una rivendita di vino a casa sua, nella sua cucina, dove volentieri gli uomini la sera passavano per bere un buon bicchiere di rosso sanseverese. Mariangela aveva una voce squillante che le consentiva di cantare canzoni e stornelli di altri tempi, di narrare storie straordinarie che incantavano grandi e piccoli. Con eloquio scelto e pertinente raccontava fatti della sua vita, aneddoti, su questo e su quello, destando interesse nell’interlocutore che rimaneva affascinato dalle sue performances. Nel parlare aveva il vezzo di tentennare la testa coronata da una folta capigliatura candida che addolciva i tratti del suo viso, sicuramente molto bello ed espressivo. Le chiacchiere con lei non erano mai noiose, anzi arricchivano le mie conoscenze su persone e fatti e mi fornivano lo spunto per imparare, io stessa, le esperienze di vita degli emigrati. E si, perché la donna aveva due figlie residenti a Basilea, in Svizzera, dove si recava nei mesi invernali, quando ormai era in età di pensione. Rientrava in paese, dopo essere passata per Milano, dove viveva il figlio maschio, nella primavera inoltrata, felice di ritrovare la sua casa, le sue abitudini, le amiche del cuore. Riportava regalini alle amiche e ai bambini di sua conoscenza, tra cui mia figlia, come centrini, colletti di pizzo San Gallo, cappellini ornati di fiorellini ricamati e di trine, qualche vestitino e, soprattutto, pezzi di cioccolato al latte o fondente, di cui tutti eravamo ghiotti.
Passarono gli anni e con Mariangela ci vedevamo molto d’estate, ma anche alle vacanze di Natale. Era sempre una festa ritrovarci, raccontarci le nostre esperienze, io di madre giovane con due figli che l’adoravano, lei di persona saggia con molta esperienza di vita.
Anche Mariangela, come tanti altri capracottesi, morì in un angolo d’Italia e fu riportata col carro come tanti altri. Sulla tomba poche parole:
MARIANGELA IACOVONE
1901- 1991
Rodolfo
Rodolfo era il gestore dello Sci Club di Capracotta: correva dentro e fuori dal locale portando vassoi colmi di birra e aperitivi con contorno di noccioline, patatine, pop corn, caffè e gelati. Nel mese di agosto i turni erano continui e lui si stancava, ma resisteva fino a sera. A settembre la musica cambiava drasticamente e l’uomo si ritrovava con i soliti pochi clienti abituali.
Le famiglie con gli anziani ripartivano e lui, vedendo l’esodo continuo, diceva: “Ma perchè ve ne andate?” E quelli: “Che cosa dobbiamo fare più qui? Non c’è rimasto nessuno e poi dobbiamo fare i controlli dal dottore, dobbiamo pagare il condominio, dobbiamo vedere la posta (sic)”.
Rodolfo, senza scomporsi, concludeva: “Chi ve lo fa fare? Tanto fra poco dovete tornare e dovete pagare pure 7000 mila euro “p’arpurtà r’ viecchie”. La famiglia rimaneva un po’ perplessa, ma poi il desiderio di allontanarsi dalla landa desolata era più forte. Così, con i debiti scongiuri degli occupanti, la macchina partiva a razzo sgommando sui sanpietrini. Spesso la profezia di Rodolfo si avverava per cui, di lì a poco, la famiglia doveva tornare per compiere l’ultimo atto misericordioso della sepoltura nel paese d’origine del defunto.
Capracotta oggi
A Capracotta i funerali scandiscono il tempo e diventano un fenomeno collettivo a cui si partecipa comunque, sia che si conosca o no il defunto. Qualche giorno fa ne è passato uno sotto le mie finestre: triste, povero, con sole 11 persone al seguito e una macchina dietro. Complice il tempo piovoso, nebbioso, freddo; è sembrata la scena di un film ambientato nella landa desolata di un paese nordico. Le poche persone, curve sotto gli ombrelli per ripararsi dalla pioggia battente, il sacerdote avanti, il ragazzo col crocifisso, il carro funebre: unico rumore, il temporale e i passi cadenzati dei pochi accompagnatori.
L’uomo, emigrato al nord da tanti anni, ha chiesto di essere riportato, morto, nella sua casa, lasciata con dolore in tempi lontani in cerca di lavoro; poi al cimitero del paesello, dove tutti sulla lapide riacquistano la propria identità perduta. E questo accade spesso: ogni tanto un carro funebre riporta tra gli amati monti una persona deceduta in qualche angolo d’ Italia. Sono andati via raminghi per il mondo, ma a tutti piace pensare che il loro paese li accoglierà fra le sue amate braccia come una madre amorevole e generosa. La campanella di S. Antonio suona per annunciare l’arrivo del feretro: parenti e amici seguono la bara fino al cimitero: saluti, pianti… poi i congiunti vanno via, ripartono. Non c’è tempo di aprire le case che sono gelide e respingenti.
L’impresa di pompe funebri è di Agnone. La macchina grigio argento arriva a Capracotta e sfila lentamente lungo il corso con due addetti laterali, anche loro vestiti di grigio con i guanti pure grigi (faranno tutti i trasporti necessari in chiesa e oltre). All’interno si vede la bara coperta di fiori e di cuscini; le corone appese di lato, dietro i parenti, e il rumore cadenzato dei passi rimbomba nel corso deserto. I necrofori dicono sempre che loro con i capracottesi lavorano molto: col navigatore innestato arrivano ovunque, anche all’estero. Mai un problema, mai una difficoltà.
Domenico, l’operaio del cimitero, mi disse una volta, indicando il suo luogo di lavoro: “Quire è paiese! Madonna che ci sctà.! Quiste (indicando la quasi totalità delle case sbarrate a Capracotta n’è niende a cunfronte, Signora Marì” (Quello è paese! Madonna che cosa c’è! Questo non è niente a confronto, signora Maria!).
La vita che torna
Il cielo è cupo, la nebbia avvolge tutto l’universo, il paese non mostra segni di vita, il silenzio è assordante. Io però so che le donne, intabarrate nelle giacche a vento, si recano in chiesa, alla spicciolata, per assistere alla messa festiva. Non saranno molte a contarsi ma l’ importante è esserci. A casa i figli ciondolano dopo la serata e parte della notte trascorsa con gli amici al bar, gli uomini si affacciano allo Sci Club. In cucina è pronto il ragù. Le giornate sono scandite da questi ritmi sempre uguali e monotoni. Se non avessimo la lettura in famiglia che ci occupa per la maggior parte del tempo sarebbe un disastro.
Ma non è sempre così! Il ricordo dell’estate capracottese è un sentimento ancestrale forte e potente a cui pochi resistono. A Ferragosto sono tutti là: si abbracciano, si baciano, cantano e ballano fino alle ore piccole. D’estate la piazza è il luogo del ritrovo: il salotto dove tutti devono passare e sostare per salutare gli amici rientrati dalle città, per guardare ed essere guardati, per respirare l’aria natia, per commentare gli ultimi fatti accaduti, tra la gioia e l’euforia del rientro nel paese che ha visto nascere la gran parte di loro. Nella piazza suona la banda quando è festa, c’è il raduno degli amici, si svolgono le manifestazioni e i comizi, c’è il passeggio elegante, sfilano le processioni.
Poi, ai primi di settembre, il paese si svuota. Qualcuno dice che ci spruzzano il FLIT (DDT). Noi che restiamo, ci guardiamo intorno smarriti e scopriamo che molti portoni hanno le tavole trasversali per non fare entrare acqua e neve d’ inverno; è il momento più brutto quello, poi la vita, per fortuna, riprende il suo ritmo. Le donne che partono dicono a quelle che restano: “Badate a voi”. Quelle che restano rispondono piccate: “Voi dovete badare a voi; là dove state vi scippano, vi rubano, vi spingono, vi ammazzano, vi “accarrano”. Noi qui stiamo bene, pensate per voi”. Piccola vendetta delle paesane!
Questi sono i paesi di oggi: senza vita, senza anima. Penso a parziale mia consolazione, che non potrà essere sempre così: tornerà il sereno tornerà la vita e non solo a Ferragosto. La gente un giorno dirà: “Meno male che ho una casetta ad Agnone o a Capracotta perché voglio andare via dall’inferno”.
Maria Delli Quadri