Giuseppe Pietro Domenico Di Sanza d’Alena
Pubblichiamo il testo “Tempi di guerra: l’incontro con i tedeschi a Capracotta”, vincitore della quarta edizione del concorso letterario di Capracotta. L’autore, Alfonso Di Sanza, è appassionato di storia, genealogia e araldica. Ha realizzato diverse iniziative (sito web casadalena.it premiato con lo Scudo d’Oro 2010 dal Centro Studi Araldici) e pubblicato articoli sul bimestrale Nobiltà dell’IAGI, sulle collane on-line Studi e Fonti Documentarie e Quaderni della SGI, nonché per il sito della famiglia de Filippis Delfico. E’ corrispondente per il Molise del Registro Araldico Italiano. Con la collaborazione dell’araldista Michele Tota di Altamura, ha realizzato e pubblicato on-line l’Elenco delle Famiglie Nobili del Molise, con la riproduzione di oltre trecento stemmi araldici di famiglie molisane. E’ amministratore del sito: http://www.casadalena.it. È socio fondatore e vicepresidente dell’associazione “Amici di Capracotta”.
Mentre i giorni sempre più tiepidi dell’estate del 1943, lasciavano presagire l’imminente arrivo dell’autunno, mio padre, Giuseppe, allora diciassettenne, insieme ai genitori Alfonso e Lida, s’incamminava da San Pietro Avellana, verso il luogo che da quel momento in poi, e precisamente fino al termine del conflitto mondiale ed alla ricostruzione postbellica, sarebbe stato un sicuro rifugio per la famiglia: la masseria in località Pezzamurata, territorio quasi a metà strada tra il paese natio e Capracotta. L’edificio sorgeva all’interno di un’ampia tenuta, retaggio dell’eredità del suo avo paterno, D. Peppe d’Alena, barone di Vicennepiane. Con loro erano lo zio materno Eduardo Carugno, ed un’altra zia, Olga Carugno (di Saverio), cugina della mamma, insieme a sua figlia Bruna d’Alessandro.
Il trasferimento alla masseria fu determinato dalla necessità di allontanarsi dal paese, perché la presenza dei militari era diventata preoccupante, ma anche perché in quel periodo i tedeschi avevano dato il via ad una campagna di rastrellamento di tutti gli uomini abili al lavoro, che venivano “tradotti” oltre la linea del fiume Sangro, e utilizzati come manodopera per approntare trincee e postazioni difensive. Era pertanto opportuno evitare ogni tipo d’incontro con il “nemico”, soprattutto per Giuseppe, giovane nel pieno vigore delle forze. Occorreva, però, anche rimediare il necessario per la sopravvivenza quotidiana, e questo lo costringeva a continue, prudenti visite a Capracotta, patria dei nonni materni, Pietro Carugno e Ernestina Antinucci. Un giorno sulla strada del ritorno, in compagnia dello zio Edoardo, dopo una breve sosta alla chiesetta dedicata alla Madonna di Loreto, cui aveva affidato una preghiera e donato dei fiori di campo, giunse alla biforcazione che si trova ai piedi del paese, dove le due strade, una a monte e l’altra a valle, si dividono per ricongiungersi al bivio prospiciente l’impianto di risalita di Monte Capraro.
All’epoca in cui si svolsero i fatti, esisteva solo la strada a valle, carrabile e non asfaltata, mentre quella che portava in alto sulla collinetta era una semplice scorciatoia, percorribile a piedi o a dorso d’animale. Prudenza e buon senso suggerivano di utilizzare quest’ultima perché permetteva una discreta copertura e al tempo stesso offriva un posto d’osservazione privilegiato per scorgere in lontananza l’eventuale sopraggiungere di pattuglie di controllo in zona.
Appena giunti sulla cima della collinetta udirono distintamente il rumore di mezzi in avvicinamento, segno inequivocabile che un’intera colonna motorizzata stava per transitare proprio sotto di loro. Quindi si appostarono in modo tale da poter osservare senza essere visti, e dopo pochi minuti scorsero la colonna di mezzi pesanti, preceduta da lunghe fila di motocicli con il caratteristico sidecar che procedevano piuttosto distanziati gli uni dagli altri. Provenivano da sud, risalendo la strada che sale dal bivio di Staffoli. Erano appena transitate le prime due motocarrozzette che aprivano il convoglio, quando una terza, con due militari a bordo, affrontò scorrettamente la curva a gomito, cadendo rovinosamente nella scarpata sottostante. L’incidente era reso più drammatico dal fatto che la distanza intercorrente tra il passaggio di un sidecar e l’altro, era tale da rendere impossibile agli altri militari del convoglio di avvedersi di quanto accaduto ai loro commilitoni, che pertanto rischiavano di rimanere senza soccorso. In quel momento in Giuseppe si scatenò una battaglia di sentimenti contrastanti; da un lato il turbamento provocato dal fatto che il suo intervento poteva essere decisivo per salvare la vita dei due malcapitati, dall’altro il timore di essere catturato e avviato, come tanti altri, di là delle linee difensive tedesche. Intanto dal punto in cui i due erano precipitati, non perveniva alcun rumore, né voce, né tantomeno si percepiva il benché minimo movimento. In un attimo Giuseppe decise che non poteva restarsene lì a guardare; scese rapidamente il pendio, scivolando di tanto in tanto, senza sapere ancora bene come avrebbe potuto soccorrerli; giunto sulla strada vide arrivare un’altra motocarrozzetta militare facente parte della colonna, e agitando le braccia riuscì a farla fermare. Sempre a gesti, riuscì a far comprendere ai tre tedeschi, cosa era accaduto. Due di loro dopo aver guardato dal ciglio della strada e scorto i loro camerati, si apprestarono a raggiungerli. Trascorsero alcuni minuti durante i quali il terzo militare parlò concitatamente alla radio e al sopraggiungere degli altri mezzi, gli fece cenno di proseguire. Giuseppe si rese conto che la sua presenza non era più necessaria e pensò che fosse meglio riguadagnare il vantaggio risalendo il pendio dal quale era pocanzi disceso. Tuttavia l’arrampicata non fu facile; si procedeva molto lentamente, rischiando di scivolare e precipitare in basso. Per di più ora al rumore dei motori si erano aggiunte le grida dei soldati tedeschi, che Giuseppe non capiva, ma percepiva dirette a lui. Ad un tratto vide che anche lo zio, con estrema difficoltà, cercava di calarsi per aiutarlo a salire più rapidamente. Furono momenti di concitazione e di forte emozione, ma alla fine entrambi riuscirono a riguadagnare la cima e soprattutto la distanza dal pericolo. Si voltarono e guardarono ancora una volta in basso, con un senso di soddisfazione per lo scampato pericolo; videro i tedeschi che agitavano le braccia verso di loro e gridavano ma… con grande sorpresa si avvidero che i loro gesti non erano minacciosi, bensì di saluto e di ringraziamento. Allora anche Giuseppe sollevò la mano dall’alto della collinetta per salutare, e in quello stesso istante si udì la sirena di un’ambulanza che si avvicinava, segno inequivocabile che i militari coinvolti nell’incidente erano ancora in vita, seppur feriti.
Prima di allontanarsi per tornare a casa, rivolse lo sguardo verso la chiesetta di S. Maria di Loreto, in segno di saluto e ringraziamento; quindi insieme allo zio riprese la via del ritorno.
I gesti gratuiti di amore fraterno, che non tengono conto degli opposti schieramenti, che non guardano al colore della divisa o della pelle, che superano gli ostacoli dei pregiudizi e dei luoghi comuni, sono quelli che più di ogni altro contribuiscono a rendere inequivocabile la dignità e la grandezza della persona umana.
Alfonso di Sanza d’Alena