L’assessore alla Cultura Maria D’Andrea
Buonasera a tutti e grazie di aver partecipato a questa convegno per il ricordo dei 70 anni dalla distruzione di Capracotta ad opera dei Tedeschi nel 1943. 70 anni intrisi di ricordi e di tristezza per quelle che furono le giornate più tristi che il nostro paese ha vissuto. Giorni di morti, di dolori, di fame, di freddo ma anche di speranza come emerge dai bellissimi racconti partecipanti a questo “IV Concorso Letterario 2013” che abbiamo voluto intitolare proprio “70 anni di ricordi: 1943-2013”, per riflettere su quello che i nostri padri e nonni vissero nell’autunno del ’43. I personaggi descritti, a mio avviso, compongono un puzzle che pezzo dopo pezzo ci danno la fotografia della situazione a Capracotta in quei giorni e mesi…
Questi tasselli di vita mi piace farli raccontare dai protagonisti e dagli autori dei 15 racconti partecipanti:
“Nel mese di Novembre e di Dicembre del 1943, infatti, il popolo capracottese visse i momenti più terribili della sua esistenza. Prima la distruzione del paese da parte delle truppe tedesche in ritirata e poi, con l’ingresso in paese delle truppe angloamericane, lo sfollamento. Prima i tedeschi la ridussero in macerie (155 furono le abitazioni non distrutte) e, poi, gli angloamericani la sfollarono perché il territorio di Capracotta fu considerato zona di guerra. E, così, i capracottesi si trovarono senza case e senza dimora e furono costretti a lasciare il paese. Furono inviati nella vicina Puglia e vi rimasero fino al 1945, praticamente, a guerra finita. Capracotta, per circa due anni, si trasformò in un paese fantasma. Furono pochissime le persone che rimasero in paese.”, racconta Matteo Di Rienzo nel suo scritto che ha partecipato al concorso.
“Con mamma e nonna raggiungemmo a piedi il paese vicino di Agnone-prosegue Sebastiano Di Rienzo nel suo racconto “Sfollati”- ospiti di una lontana comare, dove fummo accolti con benevolenza. Tutti i proprietari che abitavano nelle masserie dell’agro di Capracotta si prodigarono per ospitare fino all’inverosimile parenti ed amici sfollati. Dopo qualche giorno ci raggiunse mio padre, che prima di allora era stato nascosto nelle campagne per non farsi reclutare dalle truppe tedesche. Da Agnone ci portarono a Staffoli, con un camion, e di lì fummo trasferiti a Campobasso, dove fummo individuati e schedati, per prendere il treno che doveva condurci nei campi di concentramento di Lecce”.
Purtroppo ci sono anche racconti di coloro che all’epoca erano bambini ed adolescenti, protagonisti, purtroppo, di quelle barbarie.
“Stringevo forte al mio petto come l’ultimo regalo della mia infanzia la bambola che ritrovai schiacciata sotto le macerie – narra la bambina nel racconto “La bambola di pezza” di Claudio Esposito classificatosi 2° al Concorso Letterario- sentivo ancora intorno a me la puzza delle bombe e la polvere che mi copriva tutta la mia scarna fanciullezza devastata, sbranata, incontaminata da questa maledetta guerra. Anche se era ancora autunno, nell’aria già si preannunciava l’ingresso dell’inverno che sicuramente avrebbe peggiorato di male in peggio la mia “fragile” salute. Camminavo senza badare che i miei piedi erano talmente stanchi di calpestare, continuamente, i miei pensieri azzannati dalla ferocità di una bomba nonostante la terra mi bruciava tutta. Anche il cielo si rifiutava di guardarmi. Anche lui come me aveva smesso di giocare perché non credeva più nella bontà degli uomini. Anche lui come me osservava lo strazio che si respirava sulla terra. Anche il cuore non mi parlava più dall’ultima volta che gli avevo confidato che non avevo più tempo per colloquiare con lui. I miei pensieri li affidavo ad una bambola di pezza perché almeno lei mi capiva e non provava il significato della parola “dolore” che fa parte solo negli esseri umani. Io la immaginavo come una piccola fatina che ogni notte veniva e mi cullava per alleviare il rumore assordante delle bombe e le grida della gente che mi riportavano, nuovamente, alla cruda realtà. La chiamavo, la imploravo, la stringevo fino ad attutire i miei singhiozzi e le mie lacrime che andavano giù da sole. Che ci potevo fare se mi veniva da piangere!”.
“La bimbetta dai riccioli biondi – di cui ci narra sapientemente Alda Belletti nel suo racconto “A sera casa kaput”- raggiunse il ragazzo che, con circospezione, aveva finalmente attratto la sua attenzione, ebbero un breve dialogo, lui le consegnò una giacca da uomo, la salutò con una carezza visibilmente commosso. La piccina attonita, seguì con lo sguardo il ragazzo che indossava la divisa delle ”Schutz-staffeln”, le famigerate SS e quando svanì alla sua vista corse dai genitori, consegnò la giacca al padre e, con precisione, riferì il sinistro messaggio che aveva appena ricevuto, dovevano immediatamente lasciare la casa e fuggire lontano perché: “A sera casa kaputt!”. Era un giorno del novembre 1943 e a sera, dalla ”vaccareccia” dove si era rifugiata con la sua famiglia, quella bimba vide il susseguirsi delle esplosioni che dilaniarono tutti gli stabili nei pressi dello scalo ferroviario S. Pietro Avellana – Capracotta”.
“Mi sembrava irriverente, quasi blasfemo- scrive Aldo Trotta nel suo racconto “A Capracotta “c’era la neve, e il fumo saliva lento…”: un bambino nel turbine del 1943”- assimilare il titolo di questo breve racconto al brano musicale dedicato al campo di sterminio di Auschwitz; mi sono invece convinto che l’ambiente e lo stato d’animo della nostra gente negli ultimi mesi del 1943 non dovevano poi essere molto diversi da ciò che, in chiave assai più tragica, traspare nella canzone cui ho fatto riferimento; del resto ciò che purtroppo è avvenuto 70 anni fa’ a Capracotta, quasi un “olocausto minore” di cui sono stato piccolissimo protagonista, era frutto della stessa impietosa “regia di guerra” e dispiace ripetere ancora, con il testo musicale che citavo: “…quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare, e il vento si poserà…?”. Ed il pensiero corre spontaneo ai diversi “caduti” che anche il nostro paese ha dovuto purtroppo piangere. C’era comunque davvero, ancor prima del solito, la neve a Capracotta in quel terribile autunno, con tanto, tantissimo e strano fumo che “saliva lento” non dai comignoli, ma dalle stesse case incendiate o fatte saltare con l’esplosivo dai tedeschi: con le sue volute tragicamente mescolate al fumo innocente che il vento (“la nostra “Voria”) sollevava dai piccoli fuochi di “bivacco” organizzati in fretta dalle famiglie accampate nei pochissimi luoghi risparmiati da quella inutile rappresaglia: come appunto le Chiese o il Cimitero”.
Il cimitero era stato scelto anche dalla famiglia di Consiglia D’Andrea come racconta nel suo scritto “Capracotta minata” : “Avevo sette anni quando la guerra sentita un po’ alla lunga arrivò anche a casa nostra: erano i giorni dell’Armistizio dell’Italia con le potenze Alleate quando la furia nazista si riversò su Capracotta, proprio da quell’8 settembre 1943 quando il nostro paese era in festa per le celebrazioni in onore della Madonna di Loreto. Ci siamo rifugiati al Cimitero e per tre giorni e tre notti non abbiamo mangiato, l’ultimo giorno fu concesso ai bambini (tra cui io) di mangiare un piatto di sagne e patate che mia madre aveva procurato, e ricordo anche che quel giorno mangiammo con le mani. Non avevamo luce, nemmeno una candela, solo il leggero bagliore dei lumini del cimitero e per tre giorni abbiamo dormito nei loculi destinati ai morti. Serbo ancora il ricordo di come fu seppellita una giovanetta di 17 anni avvolta in un lenzuolo bianco: la fecero scivolare delicatamente nella fossa e poi la ricoprirono con accortezza, quasi con il timore che quel corpo, ormai senza vita, potesse sentire dolore “.
Si erano sgombrate le case velocemente senza portare con sé nulla, nemmeno l’indispensabile. Così la Mamma di Rosa Sammarone, allora sedicenne, le chiese di andare con lei a prendere qualcosa di valore se la casa fosse rimasta fortunatamente in piedi, come narra Anna Maria Caraccio nel suo racconto “Il fazzoletto di seta”:
“Davanti casa io e mia madre ringraziammo la “Madonna di Lurit” nel vederla ancora in piedi. Entrammo e un irreale silenzio regnava laddove fino a qualche giorno prima un via vai di persone veniva al negozio di mio padre ad acquistare vino e altri generi alimentari. Restammo titubanti per qualche secondo e nonostante l’ansia di poter essere scoperte e di non sapere che cosa poteva capitarci, con il cuore in gola salimmo le scale dirigendoci verso la camera da letto. Insieme, con tutte le nostre forze, spostammo l’armadio dietro il quale era nascosto dell’oro tra cui dei gioielli etiopi che erano stati regalati dal compare Agostino Conti. Non potevo andar via senza quel “fazzoletto” di seta che mi aveva regalato il mio fidanzato e che poi sarebbe diventato mio marito… Avevamo appena preparato un “maccaturo d robba” quando udimmo dei passi dalle scale. Apparvero sulla porta tre tedeschi con asce e fucili. Rimanemmo senza fiato. Uno di loro parlava italiano, probabilmente altoatesino, ci chiese che cosa stavamo facendo lì e ci intimò di allontanarci subito senza portare null’altro. Nella mia ingenuità, in quel momento pensavo solo al mio “fazzoletto” che continuavo a cercare con lo sguardo tutt’intorno. Lo vidi per terra, sotto il tavolo e dissi a bassa voce “Mò m zena toll pur ‘r fazzulett d seta!”. Un soldato improvvisamente lo raccolse e me lo diede dicendomi “No signorina. Ecco il foulard”. Io lo presi e rimasi immobile in quell’atmosfera di terrore incredula per quell’atto di umanità inaspettato”.
Non me ne vogliano gli uomini presenti in sala ma credo che un plauso lo meritino le donne di Capracotta che anche in quel periodo sono stati i pilastri nell’ultima guerra , ancore per tutta la famiglia e non solo.
A questo proposito mi piace ricordare la figura di Nunziatina “la salarola” vedova del sergente maggiore Francesco Paolo Potena nato a Capracotta il 19 maggio 1910 barbaramente ucciso dai tedeschi nel massacro di HILDESHEIM che, come molte altre donne, sono state le colonne di Capracotta in quegli anni: hanno pianto mariti, figli ma sono state anche tenaci appigli di gente alla deriva…
Lorenzo Potena nel racconto intitolato alla Madre scrive :”Per la mamma il giorno dell’anno più triste ed angosciante era quello della commemorazione dei defunti. Ella non andava al cimitero come tutti facevano, ma restava a casa che riempiva di ceri accesi e saliva e scendeva le scale con evidente agitazione. Non trovò mai il sereno distacco dagli avvenimenti che l’avevano coinvolta tanti anni prima con la morte di papà. Il suo pensiero andava sempre a lui che sapeva di non avere avuto una civile sepoltura e i figli non avevano mai conosciuto. Durante il periodo della nostra infanzia, fu sempre impegnato per esigenze militari: prima in Albania, poi in Grecia, dove, fatto prigioniero dai tedeschi nell’anno 1943 , fu portato in Germania. Nel mese di marzo dell’anno 1945, per un banale motivo, a guerra finita, fu barbaramente ucciso, insieme ad altri ex internati militari italiani, dalla furia omicida nazista, nella città di Hildesheim, nel cui cimitero furono sepolti in una fossa comune, senza nomi, ma con l’indicazione “ 208 sconosciuti”. Questa è l’eredità che abbiamo ricevuta dalla guerra. E’ un ricordo che si rigenera e mai si annulla”.
E poi c’è Annina Di Rienzo che all’epoca era adolescente nel suo racconto “Autunno 1943”, 3° classificata al concorso letterario:
“Posso quasi sentire le voci di mio padre Pietro (detto Spaventa) che, insieme a mio zio Francesco, quella mattina mi chiamavano insistentemente sotto la finestra :”Annina! Sbrigati che è tardi!”. Era ancora tempo della semina e anch’io, poco più che bambina, avrei dovuto aiutarli. Il tempo passò in fretta e quando finalmente uscii di casa, non c’era più nessuno ad aspettarmi. Presa dall’ansia e dal timore di essere rimproverata iniziai a correre veloce per raggiungerli ma, invece di seguirli sulla strada, come il buon senso avrebbe richiesto, presi la scorciatoia che attraversava i campi dietro casa, fin sotto la Pineta, per poi ricongiungersi con la strada principale. L’incoscienza e l’ingenuità mi consigliavano, le gambe giovani mi accompagnavano su quel sentiero scosceso e niente mi spaventava! Saltellando qua e là arrivai felice sotto alla Pineta dove i pochi animali superstiti, finalmente liberi dopo la partenza dei Tedeschi, pascolavano al riparo degli alberi; appena superato il ruscello (per me Vallone) fui scossa da un’esplosione alle mie spalle: una mucca era saltata su una mina che l’aveva ridotta a brandelli! Fui colpita da schegge di pietra, fango, pezzi di carne e il suo sangue mi aveva raggiunta come schizzi di vernice. Guardando quella scena raccapricciante e immobilizzata dallo spavento cercavo, quasi per ringraziarla, quella pietra che offrendomi un appoggio mi aveva evitato la mina, salvandomi la vita”.
Le donne di Capracotta sono state anche donne di coraggio, come traspare dall’episodio raccontato da Adele Paglione nel suo racconto “Il coraggio di nuove vite” 3° classificata al concorso che ha riguardato sua madre Concetta Peruzzi moglie di Francesco Paglione detto l’Africano:
“Mia madre è stata protagonista di un episodio che pochi conoscono: assieme ad un’amica distrassero, con la loro presenza e qualche chiacchiera, i soldati tedeschi che presidiavano l’Asilo dove era rinchiuso un gruppo di uomini rastrellati, dando a questi la possibilità di approfittare del non controllo per scappare attraverso i “Rtiagl”. Si salvarono tutti e il successivo rastrellamento, compiuto per racimolare altrettanti uomini, non soddisfò i comandanti: troppo avanti in età, solo quelli avevano trovato, e furono quindi rilasciati. Mia madre si nascose per giorni in un’intercapedine nella casa di una zia e i Tedeschi, che per giorni cercarono “la signorina bionda”, non riuscirono a trovarla”.
Giuseppe Di Sanza, padre di Alfonso Di Sanza vincitore dell’edizione 2013 del concorso letterario, è stato protagonista di un altro bellissimo episodio raccontato dal figlio in “Tempi di guerra: l’incontro con i tedeschi a Capracotta”:
“All’epoca in cui si svolsero i fatti, esisteva solo la strada a valle, carrabile e non asfaltata, mentre quella che portava in alto sulla collinetta era una semplice scorciatoia, percorribile a piedi o a dorso d’animale. Prudenza e buon senso suggerivano di utilizzare quest’ultima perché permetteva una discreta copertura e al tempo stesso offriva un posto d’osservazione privilegiato per scorgere in lontananza l’eventuale sopra Appena giunti sulla cima della collinetta udirono distintamente il rumore di mezzi in avvicinamento, segno inequivocabile che un’intera colonna motorizzata stava per transitare proprio sotto di loro. Quindi si appostarono in modo tale da poter osservare senza essere visti, e dopo pochi minuti scorsero la colonna di mezzi pesanti, preceduta da lunghe fila di motocicli con il caratteristico sidecar che procedevano piuttosto distanziati gli uni dagli altri. Provenivano da sud, risalendo la strada che sale dal bivio di Staffoli. Erano appena transitate le prime due motocarrozzette che aprivano il convoglio, quando una terza, con due militari a bordo, affrontò scorrettamente la curva a gomito, cadendo rovinosamente nella scarpata sottostante. L’incidente era reso più drammatico dal fatto che la distanza intercorrente tra il passaggio di un sidecar e l’altro, era tale da rendere impossibile agli altri militari del convoglio di avvedersi di quanto accaduto ai loro commilitoni, che pertanto rischiavano di rimanere senza soccorso. In quel momento in Giuseppe si scatenò una battaglia di sentimenti contrastanti; da un lato il turbamento provocato dal fatto che il suo intervento poteva essere decisivo per salvare la vita dei due malcapitati, dall’altro il timore di essere catturato e avviato, come tanti altri, di là delle linee difensive tedesche. Intanto dal punto in cui i due erano precipitati, non perveniva alcun rumore, né voce, né tantomeno si percepiva il benché minimo movimento. In un attimo Giuseppe decise che non poteva restarsene lì a guardare; scese rapidamente il pendio, scivolando di tanto in tanto, senza sapere ancora bene come avrebbe potuto soccorrerli; giunto sulla strada vide arrivare un’altra motocarrozzetta militare facente parte della colonna, e agitando le braccia riuscì a farla fermare. Sempre a gesti, riuscì a far comprendere ai tre tedeschi, cosa era accaduto. giungere di pattuglie di controllo in zona. Due di loro dopo aver guardato dal ciglio della strada e scorto i loro camerati, si apprestarono a raggiungerli. Trascorsero alcuni minuti durante i quali il terzo militare parlò concitatamente alla radio e al sopraggiungere degli altri mezzi, gli fece cenno di proseguire. Giuseppe si rese conto che la sua presenza non era più necessaria e pensò che fosse meglio riguadagnare il vantaggio risalendo il pendio dal quale era pocanzi disceso. Tuttavia l’arrampicata non fu facile; si procedeva molto lentamente, rischiando di scivolare e precipitare in basso. Per di più ora al rumore dei motori si erano aggiunte le grida dei soldati tedeschi, che Giuseppe non capiva, ma percepiva dirette a lui. Ad un tratto vide che anche lo zio, con estrema difficoltà, cercava di calarsi per aiutarlo a salire più rapidamente. Si voltarono e guardarono ancora una volta in basso, con un senso di soddisfazione per lo scampato pericolo; videro i tedeschi che agitavano le braccia verso di loro e gridavano ma… con grande sorpresa si avvidero che i loro gesti non erano minacciosi, bensì di saluto e di ringraziamento. Allora anche Giuseppe sollevò la mano dall’alto della collinetta per salutare, e in quello stesso istante si udì la sirena di un’ambulanza che si avvicinava, segno inequivocabile che i militari coinvolti nell’incidente erano ancora in vita, seppur feriti. Prima di allontanarsi per tornare a casa, rivolse lo sguardo verso la chiesetta di S. Maria di Loreto, in segno di saluto e ringraziamento; quindi insieme allo zio riprese la via del ritorno. I gesti gratuiti di amore fraterno, che non tengono conto degli opposti schieramenti, che non guardano al colore della divisa o della pelle, che superano gli ostacoli dei pregiudizi e dei luoghi comuni, sono quelli che più di ogni altro contribuiscono a rendere inequivocabile la dignità e la grandezza della persona umana”.
“Il libro dei ricordi”- che da anche il titolo al bellissimo racconto di Luisa De Renzis- “ è intessuto con preziosa filigrana di pensieri e di volti: la speciale tessitura ne ordisce la trama, ora fitta ora diradata, sino a comporre un’opera d’arte di inusitato pregio. Sono pagine di vita senza un accenno di logorio, mai intaccate dal colore sbiadito e giallognolo del passato, sempre pronte ad essere sfogliate e rinverdite … ricordi ed emozioni affiorano nella mente come piccoli fiori natanti dai vari colori ed i volti lasciano ancora trasparire intatte le infinite sfumature e la nostalgia di momenti perduti. Il ritmo del tempo scandisce l’esistenza e confina quei pensieri e quei volti nel cassetto intimo e creativo della memoria, che intatto racchiude il senso (emozione) ed il significato (ragione) del vivere. Il ricordo si confeziona da sé e, come pittore di inesauribile vena, attinge le tinte dalla “tavolozza” della vita, ricolma delle infinite sfumature dell’iride” .
Ed è proprio un “libro di ricordi” quello che abbiamo voluto lasciare ai posteri con queste bellissime testimonianze che Voi, partecipanti al Concorso letterario, ci avete voluto regalare. Grazie.
Maria D’Andrea, assessore comunale alla Cultura