Annina Di Rienzo riceve il premio dal presidente dell’associazione “Amici di Capracotta”, Domenico Di Nucci
E’ un tiepido pomeriggio d’autunno; dalla finestra filtrano i suoni tipici della stagione. Inforco il mio bastone, amico fedele a cui non posso più rinunciare ed insieme usciamo in strada. Ci aspetta Matteo, il ramo più giovane di questa vecchia quercia, con il quale, passeggiando, ci avviamo verso San Giovanni. Odo i ciottoli che risuonano sotto i passi lenti, le campane della Chiesa, le foglie degli alberi battute dal vento. Suoni antichi, amici di una vita che risvegliano con forza il ricordo di quelli che, invece, non ci sono più.
Eccoci davanti alla fontana sempre bianca, di neve l’inverno, di pietra il resto dell’anno… ora come allora! La guardo e mi chiedo se ancora gioisce insieme ai giovani schizzandoli e divertendoli con la sua acqua gelida, chissà se qualcuno ancora si rinfresca dopo il duro lavoro o la rende complice di dolci incontri e di teneri abbracci. E’ stata la protagonista di tante storie inventate dalle adolescenti che, per spiegare il proprio ritardo, non trovavano scusa migliore che dire: “c’era tanta gente a riempire la tina oggi” oppure: “mi si è rovesciata l’acqua durante il ritorno e sono stata costretta a tornare indietro alla fontana”. Tutto questo per prolungare di qualche attimo i rari e fugaci incontri con il proprio amato o anche solo con le amiche.
Le mie gambe stanche reclamano una sosta, per questo ci dirigiamo verso quella che è stata la casa che mi ha visto nascere: a “R’ CUTTRIEGL” e mi siedo sulla panchina alle spalle della Chiesa tanto amata. Il mio sguardo volge verso “LA GUARDATA” e, se le mie gambe godono del richiesto riposo, i miei pensieri corrono veloci tornando a ritroso a quell’autunno funesto, terribile, come terribile è ogni guerra!
Capracotta era stata da poco liberata dai tedeschi, eravamo rientrati a casa o in quello che ne rimaneva: una mina era stata lanciata all’interno ma non aveva distrutto tutto, le travi si erano staccate quasi completamente, e i muri esterni si erano allontanati. Eppure nei miei ricordi di ragazza quelle quattro mura traballanti, paragonate ai loculi del cimitero dove eravamo stati costretti a rifugiarci fino ad allora, sembravano una reggia.
Posso quasi sentire le voci di mio padre Pietro (detto Spaventa) che, insieme a mio zio Francesco, quella mattina mi chiamavano insistentemente sotto la finestra: ”Annina! Sbrigati che è tardi!”. Era ancora tempo della semina e anch’io, poco più che bambina, avrei dovuto aiutarli. Il tempo passò in fretta e quando finalmente uscii di casa, non c’era più nessuno ad aspettarmi. Presa dall’ansia e dal timore di essere rimproverata iniziai a correre veloce per raggiungerli ma, invece di seguirli sulla strada, come il buon senso avrebbe richiesto, presi la scorciatoia che attraversava i campi dietro casa, fin sotto la Pineta, per poi ricongiungersi con la strada principale.
L’incoscienza e l’ingenuità mi consigliavano, le gambe giovani mi accompagnavano su quel sentiero scosceso e niente mi spaventava! Saltellando qua e là arrivai felice sotto alla Pineta dove i pochi animali superstiti, finalmente liberi dopo la partenza dei Tedeschi, pascolavano al riparo degli alberi; appena superato il ruscello (per me Vallone) fui scossa da un’esplosione alle mie spalle: una mucca era saltata su una mina che l’aveva ridotta a brandelli! Fui colpita da schegge di pietra, fango, pezzi di carne e il suo sangue mi aveva raggiunta come schizzi di vernice. Guardando quella scena raccapricciante e immobilizzata dallo spavento cercavo, quasi per ringraziarla, quella pietra che offrendomi un appoggio mi aveva evitato la mina, salvandomi la vita.
Ci volle un po’, ma non appena padrona nuovamente delle mie gambe ripresi la corsa verso la strada. Lì, proprio quando mi sentivo ormai al sicuro, avvenne uno degli incontri il cui ricordo ancora oggi mi provoca grande agitazione: un soldato appartenente alle truppe Anglo-Americane, forse marocchino, mi raggiunse galoppando su un cavallo nero. Avvicinatosi mi fece cenno di salire; le sue intenzioni erano forse benevoli? chi può dirlo! Il colore della sua pelle, l’austerità della divisa da cui ero stata abituata a difendermi a prescindere dall’appartenenza, la diffidenza verso gli estranei, soprattutto uomini, mi dettarono un’unica soluzione: la fuga!
Non ricordo quanto ho corso ma viva è ancora la sensazione di panico che questo avvenimento mi provocò, più forte del precedente. Ricordo però le urla dei miei cari (mio padre e mio zio) che, seppure in lontananza, fecero forse desistere il soldato dal continuare nel suo intento, qualunque esso fosse. Finalmente al sicuro, e prima che mio padre mi raggiungesse, intravidi sul ciglio della strada uno zaino che il soldato aveva perso nella foga della corsa. Recuperato ciò che consideravo una giusta ricompensa per i rischi che avevo corso e, nascostami tra i cespugli, fui finalmente felice di scoprirne il contenuto: un paio di scarpe, un paio di calze (un po’ strane perché non avevano il piede e coprivano solo il polpaccio, con un legaccio sulla caviglia) e una tenda militare. Quello zaino pensai fosse provvidenziale specialmente per un motivo: avrebbe attutito l’ira di mio padre che aveva temuto di perdermi per ben due volte consecutive. Sicuramente provvidenziale lo fu per mio fratello Giovanni, il quale indossò le scarpe e le calze, un po’ meno per me che ricavai dalla tenda un camice impermeabile, cucito con un filo ottenuto sfilando una vecchia calza di cotone. Lo indossavo anche in casa e ne andavo molto fiera anche se mi rendeva facilmente individuabile ovunque fossi, a causa del fruscio tipico di quel materiale.
Una folata di vento e la voce di Matteo interrompono il mio racconto. Mio nipote chiede spiegazione di tanto timore verso coloro che invece avrebbero dovuto rappresentare la libertà dalle truppe tedesche, che tanta distruzione e sofferenza avevano portato in paese. Prendo allora in prestito i versi dell’amico Nicola D’Andrea, il quale riferendosi agli eventi di quel tragico novembre del 1943, recitava: “Scappò il nemico, venne l’inglese, nuovo padrone, nuove pretese! Ordinò subito lo sfollamento senza ascoltare nessun lamento”.
Continuando il mio viaggio nella memoria, descrivo l’immagine dei granai distrutti, delle nostre riserve di grano sparse ovunque, in cui gli stessi inglesi avevano fatto i loro bisogni a sfregio e dispetto di un popolo che nulla aveva fatto per meritare tutto questo.
Fu al ritorno da Torrebruna, dove ci aveva portato l’allontanamento forzato dalle nostre macerie, che nonna Maria (Di Costanzo), armata di santa pazienza e motivata dai morsi della fame, dopo aver recuperato quell’oro giallo fino all’ultimo chicco e lavatolo accuratamente alla Fonte Fredda, ne fece farina per la nostra tavola e seme per le nostre terre. L’espressione di meraviglia mista a disgusto disegnatasi sul volto di Matteo è motivo per ricordare un altro episodio legato allo stesso posto in cui avevo incontrato il soldato marocchino.
I tedeschi, costretti ad indietreggiare, si diressero verso la valle del Sangro e dopo aver incendiato ogni cosa sembravano intenzionati a portare con sé tutte le pecore scampate alle loro precedenti razzie. Erano diverse centinaia di capi che, spinti dalle camionette e i mezzi militari dell’epoca, arrivarono solo fino alla curva sotto alla Pineta; lì infatti gli animali furono mitragliati tutti rendendo la strada un tappeto di lana bianca che si confondeva quasi con la prima neve giunta prematuramente a coprire ogni cosa. Ricordo chiaramente la disperazione di Zio Berardino Di Rienzo, i pianti di zia Marietta (Pulcinella) che avevano perso fino all’ultimo dei loro animali.
Naturalmente tutta la lana fu recuperata e la loro carne servì per un po’ di tempo a sfamare la popolazione rimasta. Pur disponendo di una ghiacciaia naturale offerta dal freddo e dalla neve, per far durare l’inaspettata scorta più a lungo, ci si rivolse agli stessi pastori che avevano subito la perdita affinché mettessero a disposizione le riserve di sale rosso, una volta utilizzato come integratore per i loro greggi.
Questo ricordo me ne porta immediatamente un altro alla memoria, ancora più tragico, ancora più triste perché questa volta sono coinvolte due vite umane. Fiore De Renzis (fratello di Irene e Lucia “Di Milione’”) e suo figlio Emilio, erano passati per il paese suonando il corno, per avvisare, a mo’ di banditore, che quel giorno si potevano mandare le capre al pascolo, com’era consuetudine prima della guerra. A quel suono coloro che ancora ne possedevano, consegnavano gli animali a Fiore che si occupava di condurle sotto alla “Defensa”. Quella sera, però, padre e figlio non fecero ritorno, anzi le capre tornarono sparpagliate al paese. Segno funesto che nulla di buono faceva presagire. Emilio e Fiore furono trovati martoriati da una cannonata sparata dai tedeschi in ritirata verso la Valle del Sangro; forse il movimento degli animali li aveva allarmati inducendoli a pensare che fossero soldati nemici diretti verso di loro. A memoria di quel tragico evento e al posto dell’albero divelto, vicino al quale furono rinvenuti i due sfortunati corpi, fu posta una croce di ferro.
E’ quasi ora di rientrare e sono ancora qui davanti a quella che fu la mia vecchia casa traballante e penso alle tante cose che da allora sono cambiate.
Gli anni passati hanno invecchiato il mio corpo ma non la mia mente. Le fatiche e i sacrifici fatti con mio marito hanno rigato il mio volto ma non intaccato la mia indole. Sento forte ancora la voglia di vivere, non mi rassegno alla sola nostalgia anche se il tempo passa e va via.
Annina Di Rienzo