Le famiglie de re Carmenone (mia famiglia: Di Nucci) e de re Paciglie (Di Lullo), legate anche da vincoli di comparizia, condividevano, oltre la solita vita da contadini, anche quella di carbonai e calcaruoli. Invece le altre due famiglie che abitavano l’ultimo gruppo di case della Fundione insieme a noi, i fratelli Matteo con Ze E’rriche (Zio Errico) e Ze Necola (Zio Nicola detto Mondiale), erano dediti anche alla pastorizia.
Le mucche di Ze E’rriche passavano la notte legate o al muro di Giambulippone oltre il fosso o nell’orto’orto di Saverio. Ze Necola Mondiale, aveva un piccolo gregge; re iacce (il recinto delle pecore), costruito al solito con frasche e rovi, era proprio davanti le case tra la mulattiera e il fosso. Basso e tarchiato, aveva una larga fascia di tessuto al posto della cinta dei pantaloni e sempre re scuriazze (la frusta) a portata di mano; burlone, arcigno, rude e sanguigno, quando era allegro giocava con i bambini come solo un circense sa fare; invece quando aveva la luna storta, era intrattabile e riempiva l’aria con urla e bestemmie.
Il gregge ogni giorno, alle prime luci dell’alba partiva per le zone di pascolo per rientrare sul far della sera; ero quasi sempre lì per il gusto di essere coinvolto; qualche volta mungevo una pecora, giocavo con i cani e facevo compagnia al pastorello di turno. Facevano pena gli agnelli che belavano per tutto il giorno e gustavo la loro sfrenata allegria al ritorno delle madri. I cani di notte vigilavano e difendevano il territorio; i cuccioli, fino a quando non erano pronti a seguire il gregge, crescevano con noi bambini.
Leone era uno di quei cuccioli che mi si era affezionato più degli altri e tra di noi s’era stabilito uno straordinario rapporto: mi aveva scelto come leader e da me accettava tutto. Quando facevo tardi, impegnato in lunghi giochi in piazza o per il corso con i miei coetanei, era sempre un problema tornare a casa con il buio. L’illuminazione pubblica o non c’era o si limitava ad una modesta lampadina nel primo gruppo di case ed ad un’altrettanta modesta lampadina nel gruppo di case dove dovevo arrivare. Praticamente si camminava per un bel tratto di mulattiera nel buio più assoluto e se fino al primo gruppo di case la strada era più o meno trafficata, la paura mi attanagliava quando da solo ne dovevo percorrere l’ultimo.
Cresciuto che fu Leone, non ebbi più problemi; appena giungevo sotto Zia Assunta Catalano, bastava un fischio ed ecco che, allegro e pimpante, mi veniva incontro e con lui al fianco non avevo paura di nulla. Poi, una sera, nonostante i fischi Leone non si presentò all’appuntamento; lo cercai tra gli altri cani ma era letteralmente sparito. Il giorno dopo mi alzai in tempo per veder partire il gregge e seppi che Leone era finito sotto le ruote di uno dei rari camion che circolava per strade sconnesse e polverose.
Restai impietrito; per un poco diradai la partecipazione ai giochi in piazza o evitai accuratamente di fare tardi; tornò la paura del buio e dell’ignoto, paura che veniva alimentata ed accentuata sia dagli strani e terribili racconti riguardanti streghe e stregoni che approfittavano della notte per mettere in atto le loro malefatte che da voci di presenza qui e là di lupi affamati.
Domenico Di Nucci
Dal volume “I fiori del Paradiso”