Dopo l’Unità d’Italia, molti capracottesi emigrano in cerca di fortuna verso l’America: principalmente in Argentina e negli Stati Uniti. Secondo l’Inchiesta Jarach, l’esodo capracottese verso il Nuovo Mondo ha inizio nell’anno 1870. Prima, partono gli uomini. Poi, una volta trovata una sistemazione decente, chiamano le mogli per ricomporre la famiglia in quelle terre lontane. A quel punto, occorre una foto per il passaporto: le donne tirano fuori dalla “cascia” (baule) il vestito della festa e gli ori di famiglia e si recano dal fotografo del paese, Giovanni Paglione.
La consapevolezza dell’abbandono degli affetti più cari, la preoccupazione di dover affrontare da sole un lungo viaggio e una nuova vita oltreoceano con tutte le incognite del caso lasciano un’ombra di tristezza sul viso di tutte: sui loro volti non c’è mai un sorriso, quello forse verrà dopo. Per quanto riguarda l’abbigliamento, è evidente l’importanza data al corpino per esaltare la figura e la femminilità. Le maniche arricciate anche sui polsi, il colletto alto e accostato, le camicette bianche sono quasi sempre messi in risalto dagli ori di famiglia e da elaborati pizzi lavorati a uncinetto o al tombolo. In quegli anni era molto di moda il cappellino: qui non c’è traccia, però sono in bella evidenza le elaborate acconciature.
In Argentina…
L’emigrazione capracottese (e italiana) in Argentina avviene principalmente tra il 1880 e il 1914, un periodo in cui l’Italia attraversa una grave crisi economica. L’emigrante sente dire che nel Nuovo Mondo non c’è miseria, si trova facilmente lavoro, ci si può procurare agevolmente un alloggio e generare figli che, a loro volta, avrebbero avuto accesso alla pubblica istruzione. Venivano a “fare l’America”. Le famiglie li incoraggiano dando loro qualche aiuto economico per il viaggio (“Mamma mia, dammi cento lire che in America voglio andar”, è il ritornello di una celebre canzone italiana dell’epoca).
La Repubblica Argentina apre loro generosamente le braccia offrendo grandi opportunità. Di solito, gli emigranti partono dal porto di Genova, e sbarcano a Buenos Aires dopo un viaggio transoceanico di un mese: alcuni in condizioni davvero penose in quanto le imbarcazioni sono le medesime che trasportano in Europa carne e cereali. Dormono in cuccette scomode e sporche. Gli emigrati sono ospitati e nutriti gratuitamente per cinque giorni dalla Repubblica Argentina nel cosiddetto “Hotel de los Inmigrantes”.
Mentre le mogli si prendono cura dei figli, gli uomini vanno a cercare lavoro, di solito nell’agricoltura o nella realizzazione della linea ferroviaria. Imparano l’uso delle macchine agricole: l’Argentina ha milioni di ettari di territorio spopolato. Successivamente, si spostano all’interno nelle diverse città dove hanno trovato un’occupazione. Nel giro di poco tempo, gli uomini trovano una moglie creola e si integrano perfettamente nella comunità argentina. Gli emigrati italiani in Argentina ammontano a circa quattro milioni: non ci sono donne creole per tutti, perciò alcuni devono metter su famiglia con donne indie o di colore. Altri, come il mio bisnonno, devono tornare a Capracotta, sposare una donna italiana e rientrare in Argentina. Altri scrivono lettere ai genitori nelle quali chiedono se ci fossero in paese donne disposte a emigrare in Argentina e sposarsi con loro. In molti casi, i futuri coniugi si conoscono soltanto all’arrivo della promessa sposa al porto di Buenos Aires.
La maggior parte dei Capracottesi arrivati in Argentina nel XIX secolo si trasferisce nelle città di Lobería (in provincia di Buenos Aires) e di Santiago del Estero. Fino all’anno 1914, i figli maggiori degli emigranti italiani terminano la scuola secondaria e si iscrivono all’università. Nel 1919, i figli degli emigrati cominciano a laurearsi in giurisprudenza, medicina e ingegneria. Tra questi, a Santiago del Estero, i fratelli José e Antonio Castiglione, Antonino Di Nucci, Orestes Di Lullo, Federico Pardi, Pettinichio, Domingo Palumbo, Luis Stábile, María Luisa Stábile de Nucci, Carlos Stábile, ecc. I loro genitori si riempiono d’orgoglio quando dicono: “mi hijo el dottor” (in spagnolo è “doctor”, però lo pronunciano senza la lettera “c”, come “dottore”: non hanno perso la forte tonalità italiana). Nel 1896, gli emigrati presenti a Santiago del Estero costituiscono la “Sociedad Italiana de Socorros Mutuos”, per aiutarsi a vicenda. E chiedono, ottenendolo, che l’amministrazione comunale cambi il nome della strada in cui risiedono in “via Garibaldi”. Questo processo di creare istituzioni si verifica in tutte le province argentine. Ci sono esempi molto importanti del prezioso contributo di questi emigrati alla comunità argentina. Per esempio, nella musica, nella religione, nel cinema, nell’arte, nel teatro, ecc.
…e negli Stati Uniti
L’emigrazione femminile negli Stati Uniti d’America rientra in quella grande ondata migratoria proveniente dall’Europa Centro-meridionale. Negli ultimi decenni del XIX secolo, gli Usa avevano registrato un forte e rapido processo di industrializzazione: le fabbriche siderurgiche di recente costruzione necessitavano continuamente di mano d’opera non specializzata da impiegare su vasta scala. Molti capracottesi avevano trovato lavoro nelle grandi città industrializzate della East Coast e del Midwest: Boston, New York, Pittsburgh, Philadelphia, Cleveland, Youngstown, Chicago e Burlington (New Jersey). Prima erano partiti gli uomini, poi le mogli.
Le donne capracottesi sono prevalentemente casalinghe oppure lavorano in casa come cucitrici per alcune società americane: sono molto ricercate per la loro grande abilità. In alcuni casi, arrotondano il loro magro guadagno affittando le stanze vuote delle proprie abitazioni ai nuovi arrivati da Capracotta e dalle altre città italiane. Le capracottesi mantengono anche i rapporti epistolari con i propri parenti oltreoceano. A quei tempi, infatti, le spese postali internazionali sono abbastanza economiche. Inoltre, le donne sono più acculturate delle proprie madri grazie agli investimenti che il nuovo Regno d’Italia aveva fatto nel campo della pubblica istruzione. Spesso, nelle lettere, inviano dollari ai loro cari a Capracotta.
Per gli uomini e le donne capracottesi emigrati negli Stati Uniti d’America, i primi anni sono davvero difficili. Gli emigrati italiani incontrano una forte ostilità da parte delle altre comunità emigrate per contrasti sui luoghi di lavoro o per motivi religiosi. Per esempio, gli industriali utilizzano i nostri emigrati per sostituire altri lavoratori durante gli scioperi proclamati prevalentemente dagli irlandesi. All’interno delle comunità cattoliche, poi, scoppiano conflitti con tedeschi e irlandesi per la composizione delle gerarchie diocesane. Le nostre compaesane partecipano alla vita comunitaria delle parrocchie americane di lingua italiana e, in particolar modo, all’organizzazione delle grandi feste patronali annuali come, per esempio, quelle in onore di sant’Antonio, della Madonna del Carmine e della Madonna di Loreto.
Bisogna anche imparare rapidamente una nuova lingua e assimilare nuovi valori culturali. Le nostre compaesane non trovano nei negozi americani gli abituali prodotti alimentari italiani. Così, molte donne piantano frutta e ortaggi italiani nel proprio giardino. Alcune aprono negozi di alimentari per rivenderli. Malgrado le numerose difficoltà e i grandi sacrifici, le donne capracottesi emigrate sul finire del XIX secolo negli Usa possono essere considerate, a distanza di tempo, come le madri fondatrici delle affermate comunità italo- americane. Le nuove generazioni di cittadini che hanno contributo a creare, insieme ai propri mariti, hanno posto le basi per la crescita occupazionale nazionale e lo sviluppo delle classi medie negli Stati Uniti d’America. Guardando i volti di queste donne, non dimenticheremo mai quello che hanno fatto e che oggi noi, loro discendenti, ci appoggiamo ancora sulle loro spalle.
Antonio Virgilio Castiglione, Benjamin Lariccia
Fonte: AA.VV., Capracotta 1888-1937: cinquant’anni di storia cittadina nelle foto del Cav. Giovanni Paglione, Associazione “Amici di Capracotta”, Cicchetti Industrie Grafiche, Isernia, 2014