Pubblichiamo, una alla volta, gli interventi di tutti i relatori del convegno sulla Prima Grande Mondiale dal titolo “Capracotta a 100 anni dalla Grande Guerra”, svoltosi sabato 8 agosto 2015 presso la Sala Polifunzionale dell’Edificio Scolastico di Capracotta. Questo appuntamento è stato soltanto uno degli eventi di un ampio programma organizzato dall’amministrazione comunale di Capracotta, in collaborazione con la “Fondazione Molise Cultura” e le associazioni “Amici di Capracotta” e “Terra Vecchia”, per celebrare il centenario dello scoppio del primo conflitto mondiale.
Cento anni dall’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, motivo di riflessione e di memoria, come è giusto che accada, come è necessario che avvenga, purché la memoria non sia selettiva ed unidirezionale e, soprattutto, concentrata esclusivamente sui macro fenomeni che costituiscono il contenuto delle pagine dei manuali. Convegni come questo di Capracotta hanno, di fatto, il merito di correggere ed integrare l’impostazione fino a qualche anno fa unica e totalizzante nell’approccio alla Storia, con la “S” maiuscola, approccio che da un lato denuncia la nostra difficoltà a fare i conti con il passato, d’altro canto la necessità di condurre al dialogo micro e macro storia.
L’esigenza di dare un quadro di riferimento complessivo dei grandi avvenimenti e di calare in essi le vicende locali che costituiscono, per così dire, la “polpa” della storia, porta sempre di più al recupero della “territorialità” e al bisogno di un lavoro di ricognizione nelle diverse realtà, a raccogliere documentazione, aprire gli archivi, incontrare i testimoni di seconda generazione.
Dunque un grande plauso al Comune di Capracotta che con questa iniziativa aiuta ad accostare lo sguardo per vedere il “vicino” e ad allontanarlo per inserire il “vicino” nel “lontano”, come avrebbe suggerito Pascoli.
Il contributo dato da questa Regione alla Grande Guerra fu importantissimo se è vero, come è vero, che quasi ogni famiglia mandò un suo figlio al fronte; mio nonno partì da Carovilli per andare a combattere sul Carso e la mia infanzia è stata popolato dei suoi racconti commossi, forse romanzati, ma indispensabili per la ricostruzione della realtà sociale, culturale, antropologica di quel momento storico. Entrando nel vivo della nostra realtà , scovando lettere, scritti nei tiretti, negli armadi, recuperando un armamentario di ricordi di cui ignoriamo spesso l’esistenza, diventiamo custodi inconsapevoli e, progressivamente, consapevoli del passato, della realtà comune, della nostra famiglia.
Ed è quello che ha fatto Anna Falcone, la giovane che ha ripreso le lettere del suo antenato, Giuseppe Falcone, nato a Toro nel 1894, partito per il fronte nel 1916. Perché fare riferimento a questa storia specifica, dalla quale, per altro, la Compagnia Stabile del Molise, ha tratto uno splendido lavoro teatrale, “Il cappello di ferro”, cappello di ferro perché così chiama il soldato semplice Giuseppe Serpone il suo elmetto? Perché, in fondo, la sua storia è paradigmatica di quello che accade nei singoli paese e che si abbatté su un’intera generazione, perché il rigore filologico del recupero delle fonti, la commozione, la partecipazione sentimentale, la caparbia ricerca di un filo conduttore nella vita spezzata di un uomo, la perseveranza nella volontà di capire costituiscono patrimonio comune e non individuale, potenzialità di ogni singola comunità, perché il lavoro che ha portato avanti Anna Falcone è lo stesso che state mettendo voi in campo nella ricostruzione di quelle vicende, perché Capracotta, Toro, Carovilli e tutti gli altri paesi del nostro piccolo e granitico Molise sono uniti da parole comuni, sofferenze comuni, speranze comuni, non di rado brutalmente spezzate.
Mentre il trionfalismo e il culto per il bel gesto di dannunziana memoria, l’interventismo iniziale ungarettiano orientavano masse acclamanti, masse che cominciavano ad abituarsi alle parole d’ordine della società di inizi novecento, tra esaltazione incipiente della violenza e del nazionalismo, c’era una massa di ragazzi, di uomini, che ignoravano obiettivi, luoghi, e ragioni di una guerra che li aveva strappati al proprio mondo, circoscritto, con possibilità comunicative limitate ed infinite allo stesso tempo, ma comunque noto e governabile.
Da quelle pagine che, verrebbe da dire, solo casualmente sono di un cittadino di Toro, emerge una dimensione agro pastorale visceralmente legata alla terra, al raccolto, alla quantità di grano e di vino che si raccoglierà, la preoccupazione del pane che non scompare neppure di fronte al cannoneggiamento insistente, al nemico di cui si sente il respiro nella sua vicinanza disperante ed umanissima. La terra è vita, centro di un’epica del quotidiano che ricorda il mondo disperato e fortemente legato ai valori familiari cantato da Verga. La famiglia, appunto, citata di continuo, con una affettuosa ossessione che la trasforma in centro gravitazionale, sacro e imprescindibile, nell’unica speranza tra tanta violenza, nella meta alla quale ricongiungersi nel fondo buio del tunnel. Da quelle lettere, scritte in un linguaggio stento ed efficacissimo, con una grammatica improbabile, ma straordinariamente espressive, viene fuori con chiarezza quello che diceva Bertol Brecht: gli umili del mondo sono le vere vittime della guerra, la carne da macello mondata a morire, uomini, donne che acquistano, tuttavia, attraverso la sofferenza, una diversa e più consapevole conoscenza di sé, uno sguardo differente e più lucido attraverso il quale osservare il mondo. Una sorta di processo di formazione e di crescita che unisce persone che avevano difficoltà a comunicare, a riconoscersi nel concetto di patria e di nazione, a raccontare i propri stati d’animo fino in fondo a chi era lontano ed andava protetto dalla morte e dalla disperazione. Solo la vicinanza, evocata come un amuleto, riconcilierà le parole con le parole e il racconto con il racconto. Da quelle lettere, che sono ipostatizzazione di tutte le lettere dal fronte degli umili soldati, emerge ancora un istintivo e umanissimo desiderio di pace, del superamento della fame e del freddo e uno spirito solidaristico e altruistico che abbiamo del tutto dimenticato.
Mentre Giuseppe Serpone racconta la sua epica del quotidiano, le lettere del generale Cadorna parlano del fascino delle donne, della grandiosità delle sue gesta, occhi diversi su una stessa realtà che sembra spaccarsi in mille rivoli inconciliabili. Giuseppe Serpone non rivedrà i suoi cari: morirà a Bovec, ucciso da una pallottola sparata da un cecchino, nei primi giorni del giugno 1917. E morirà scavando trincee, lui contadino, assegnato agli “zappatori”. Neppure il suo corpo tornerà in paese. La guerra non restituisce, prende solo. Ma la tenacia di Anna Falcone, ha rintracciato il suo corpo a Caporetto.
“Sono stata sulla sua tomba a rendergli omaggio per riunirlo anche solo per un momento alla sua famiglia”. Questo ci dice Anna. Per dare ragione delle sue parole, per restituire quello che gli anni hanno sottratto e la guerra ha rubato, ringrazio e plaudo all’iniziativa del Comune di Capracotta, alla vostra paziente volontà di ricucire la memoria, non solo commemorativa, che pure è indispensabile, ma “interpretativa”, perché, come a ragione diceva Hannah Arendt, capire è nostro dovere, entrare nei meccanismo, leggere i gangli degli avvenimenti.
Impegno che dobbiamo a chi ha lottato per un popolo tutto.
Antonella Presutti