Pubblichiamo, una alla volta, gli interventi di tutti i relatori del convegno sulla Prima Grande Mondiale dal titolo “Capracotta a 100 anni dalla Grande Guerra”, svoltosi sabato 8 agosto 2015 presso la Sala Polifunzionale dell’Edificio Scolastico di Capracotta. Questo appuntamento è stato soltanto uno degli eventi di un ampio programma organizzato dall’amministrazione comunale di Capracotta, in collaborazione con la “Fondazione Molise Cultura” e le associazioni “Amici di Capracotta” e “Terra Vecchia”, per celebrare il centenario dello scoppio del primo conflitto mondiale.
Capracotta è protagonista nella Grande Guerra non solo sui campi di battaglia per il coraggio e il grande spirito di sacrificio dei propri figli ma anche nella letteratura e nella filmografia prodotta, nei decenni successivi alla fine del conflitto, su questa sanguinosa pagina della storia mondiale. La nostra cittadina è espressamente citata nel romanzo “A Farewell to Arms” (“Addio alle armi”, nella versione italiana), un romanzo parzialmente autobiografico pubblicato nel 1929 dallo scrittore americano Ernest Hemingway, volontario della Croce Rossa Americana sul fronte italo- austriaco. Quest’opera ha avuto una discreta fortuna nel campo cinematografico con la realizzazione di quattro pellicole tra il 1932 e il 1996.
Il libro racconta la storia d’amore tra il giovane idealista americano Frederic Henry, conducente volontario di ambulanze, e l’infermiera britannica Catherine Barkley nel periodo a cavallo della rotta italiana di Caporetto. I riferimenti autobiografici sono evidenti: se Frederic è l’autore stesso, riconosciamo in Catherine l’infermiera americana Agnes Von Kurowsky, amata da Hemingway durante i suoi tre mesi di convalescenza trascorsi presso l’Ospedale di Milano dopo essere stato gravemente ferito a una gamba a Fossalta di Piave per lo scoppio di un colpo di mortaio austriaco nella notte tra l’8 e il 9 luglio del 1918. Frederic e Catherine sono i protagonisti assoluti della vicenda. Gli altri personaggi si muovono tutt’intorno per consentire a Hemingway di lanciare un messaggio ben preciso ai propri lettori: la vita è precaria perché è continuamente sconvolta dalla violenza e dalla morte; bisogna vivere appieno i momenti di serenità e l’amore.
Eppure, per il lettore capracottese, questo romanzo assume una importanza particolare per le vicende del “cappellano” militare: quest’uomo di Chiesa, in alcune chiacchierate con Frederic, parla esplicitamente di Capracotta lasciando trasparire pure una sua possibile origine capracottese.
Frederic incontra una prima volta il sacerdote nella mensa militare. È una persona semplice: «Il cappellano era giovane, arrossiva facilmente e indossava una uniforme come noi ma con una croce di velluto rosso scuro sopra il taschino sinistro della sua tunica grigia». Il clima è cameratesco. Alcuni ufficiali lo prendono in giro ma lui sa stare allo scherzo replicando con garbo ma a dovere. È inverno. La neve cade fuori dalla porta. Tutti sono convinti che l’offensiva è ormai rinviata a primavera. L’attenzione si sposta su Frederic. «Dovete andarvene in licenza. Dovete andare a Roma, Napoli, Sicilia…», dice il maggiore. «Dovete visitare Amalfi», suggerisce il tenente. Le parole dei militari si accavallano. «Dovrebbe andare a Palermo». «Deve assolutamente andare a Capri». «Mi piacerebbe che vedesse gli Abruzzi e andasse a trovare la mia famiglia a Capracotta», interviene a questo punto il cappellano. «Sentilo lui con gli Abruzzi. C’è più neve che qui. Non vuole vedere contadini. Lascialo andare in centri di cultura e di civiltà». «Ha bisogno di belle ragazze. Ti darò qualche indirizzo di Napoli. Bellissime ragazzine, accompagnate dalle loro madri. Ah. Ah. Ah». Il cappellano, però, non cede: «Mi piacerebbe che andasse negli Abruzzi. C’è buona caccia. La gente le piacerebbe e, anche se fa freddo, è asciutto e sereno. Potrebbe stare con i miei. Mio padre è un famoso cacciatore».
Frederic viaggia in lungo e in largo per l’Italia: Milano, Firenze, Roma, Villa San Giovanni, Messina, Taormina… Ma non va negli Abruzzi. E, al ritorno sul fronte, appena vede quel sant’uomo se ne rammarica: «Quella sera a mensa sedetti accanto al cappellano che fu deluso e si offese d’improvviso perché non ero andato negli Abruzzi. Aveva scritto al padre che sarei andato e avevano fatto dei preparativi. Rimasi male quanto lui e non riuscivo a capire perché non ci fossi andato. Avrei voluto farlo e cercai di spiegare come una cosa avesse tirata l’altra e finalmente si rese conto e capì che avrei davvero voluto andarci e la faccenda fu quasi sistemata. Noi due chiacchieravamo mentre gli altri discutevano. Avevo desiderato andare negli Abruzzi. Non ero andato in nessun luogo dove le strade fossero gelate e dure come il ferro, dove vi fosse un freddo sereno e asciutto, la neve fosse asciutta e farinosa e ci fossero tracce di lepre sulla neve e i contadini si levassero il cappello e vi chiamassero Signoria e ci fosse una buona caccia».
La fine della licenza coincide con la ripresa delle operazioni militari. E, proprio durante una di queste, Frederic viene ferito alle gambe dallo scoppio di una bombarda. Fortunatamente, però, non è niente di grave. Viene ricoverato in un ospedale da campo. Ed è qui che si svolge un altro memorabile incontro tra il giovane americano e il cappellano. Quest’ultimo porta a Frederic alcuni regali: una zanzariera, una bottiglia di vermut e alcuni giornali inglesi. È stanco degli orrori della guerra. Spera che finirà presto per poter tornare negli Abruzzi. «Vuol molto bene agli Abruzzi?», gli chiede il volontario ferito. «Sì, molto». «Allora dovrebbe andarci». «Sarei troppo felice se potessi vivere là e amare Dio e servirlo». La conversazione continua sul valore dell’amore e, in particolare, su quello verso il Signore fino a quando il cappellano è costretto ad andare via per l’ora tarda. Ed è allora che Frederic- Hemingway si lascia andare in una idilliaca ricostruzione della nostra cittadina: «Era buio nella stanza e l’attendente che era rimasto seduto ai piedi del letto si alzò e uscì con lui. Gli volevo molto bene e speravo che una volta o l’altra potesse ritornare negli Abruzzi. Faceva una porcheria di vita alla mensa e la sopportava bene, ma pensavo a come sarebbe stato al suo paese. A Capracotta, mi aveva detto, c’erano le trote nel torrente sotto la città. Era proibito suonare il flauto di notte. Quando i giovanotti facevano le serenate, soltanto il flauto era proibito. Perché, avevo chiesto. Perché alle ragazze non faceva bene udire il suono del flauto di notte. I contadini chiamano tutti “Don” e quando incontrano qualcuno si tolgono il cappello. Suo padre andava a caccia ogni giorno e si fermava a mangiare nelle case dei contadini. Per loro era sempre un onore. Uno straniero per poter cacciare deve presentare un certificato che non è mai stato arrestato. C’erano gli orsi sul Gran Sasso d’Italia, ma era lontano. Aquila era una bella città. D’estate la notte faceva fresco e la primavera degli Abruzzi era la più bella d’Italia. Ma quel che era bello era l’autunno per andare a caccia nei boschi di castagni. Gli uccelli erano tutti buoni perché si nutrivano d’uva e non c’era mai bisogno di preparare una colazione perché i contadini erano sempre onorati e si mangiava in casa loro. Dopo un po’, mi addormentai».
La storia prosegue. La presenza del cappellano tende a ridursi sempre più nel corso della narrazione. Frederic viene mandato in convalescenza a Milano. Poi, viene coinvolto nella rotta di Caporetto: il gruppo di ambulanze è travolto dalla massa di soldati italiani in caotica ritirata. Lui e altri suoi commilitoni sono costretti ad abbondare le vetture. Inizia anche per loro una lunga serie di avventure. È fermato dai Carabinieri nei pressi di un ponte sul Tagliamento e scambiato per un disertore: si salva tuffandosi nel fiume. La sua fortunosa fuga termina in Svizzera a Losanna. Ma non c’è alcun lieto fine. L’amata Catherine muore in ospedale dopo aver partorito un bambino senza vita. Eppure, proprio poco prima della tragedia finale, Frederic pensa per l’ultima volta, tra gli altri, al cappellano senza dirci nulla sulla sua sorte: «Ma non penso molto a loro. Non voglio pensare alla guerra. Per me la guerra è finita».
Nell’intero romanzo, Hemingway, dunque, parla più volte del cappellano senza però rivelarci il nome. Dal testo, una cosa appare pacifica: le sue origini capracottesi. L’autore americano, infatti, non lascia spazio a dubbi associando inequivocabilmente la famiglia del sacerdote e il religioso stesso a Capracotta nei dialoghi sulla destinazione dei viaggi di Frederic nel periodo di licenza e nell’idilliaco monologo del giovane volontario durante il suo ricovero nell’ospedale da campo. Eppure, una consolidata tradizione identifica questo religioso nel sacerdote fiorentino don Giuseppe Bianchi, nato a Scandicci nel 1882 e cappellano dell’Ospedale di Sarzana. La citazione nel romanzo sarebbe una sorta di ringraziamento di Hemingway nei suoi confronti visto che don Giuseppe lo aveva riconosciuto (e battezzato) tra un mucchio di soldati morenti nel luglio del 1918, dopo lo scontro armato con gli Austriaci a Fossalta di Piave, e consegnato appena in tempo ai medici salvandogli in tal modo la vita.
Il romanzo “A Farewell to Arms” viene pubblicato il 27 settembre del 1929 a New York. Le recensioni sono subito tutte positive: nel giro di un mese, ha già venduto 28.000 copie; a novembre è in testa a tutte le classifiche dei best- seller. In Italia, il regime fascista vieta la vendita dell’opera perché la ritiene lesiva dell’onore delle Forze Armate sia per la narrazione dei fatti di Caporetto sia per la diserzione del protagonista. Nel 1932, viene realizzata una prima riduzione cinematografica, tutta hollywoodiana, del romanzo dal titolo “A Farewell to Arms”, diretta da Frank Borzage e con un cast d’eccezione: Gary Cooper interpreta Frederic Henry, Helen Hayes è Catherine Barkley e Jack La Rue, a sua volta, il cappellano. Nel 1957, esce la seconda versione, girata interamente in Italia non lontano dai luoghi descritti nel romanzo sotto la regia di Charles Vidor: “Addio alle Armi”. Nel 1962, “Le avventure di un giovane” racconta le esperienze del giovane Hemingway in Italia durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 1996, infine, viene prodotto un remake cinematografico del romanzo, “In Love and War” (“Amare per sempre”), con un taglio più moderno, quasi da fiction televisiva. Tra gli interpreti, Chris O’Donell e Sandra Bullock.
La versione cinematografica che più ci interessa in questa sede è la seconda, quella del 1957. Rock Hudson è Frederic Henry, Jennifer Jones interpreta Catherine Barkley e, soprattutto, Alberto Sordi si cala nei panni del cappellano. Stavolta, però, il sacerdote abruzzese ha un nome preciso: padre Galli. Capracotta non viene mai citata e il cappellano muore durante un attacco dei tedeschi mentre è impegnato a garantire i conforti religiosi ad alcuni moribondi in un ospedale militare. Tuttavia, se utilizziamo le informazioni contenute nel testo originale di Hemingway per integrare la trama di questa pellicola, tra cui l’origine capracottese del cappellano, scopriamo un nuovo legame tra la nostra cittadina e l’Albertone nazionale oltre alle celebri battute interpretate nel film “Il Conte Max”, distribuito peraltro nello stesso anno di “Addio alle armi”.
Oggi, a Capracotta, esiste via Ernest Hemingway. È situata sotto via Rione Grilli, vicino alla villa comunale, proprio di fronte ad alcuni centri abitati e alle vette dell’Abruzzo meridionale tra boschi incontaminati e scorci mozzafiato. Se Frederic fosse davvero venuto a Capracotta durante la sua licenza, forse non avrebbe più voluto far ritorno al fronte per la bellezza dei luoghi, l’aria gentile e la cortesia della gente. E, probabilmente, Hemingway questo lo sapeva benissimo…
Francesco Di Rienzo