Questa è la storia di una lettera dal fronte mai scritta e di un sogno americano infranto. La storia inizia da una cartolina postale con risposta pagata spedita il 6 giugno 1916 che mi è stata regalata dal collezionista Angelo Di Luozzo ignaro che Filomena Carnevale fosse la sorella di suo nonno Pietro.
«Al Soldato Castiglione Filiberto. Divisione Militare Ancona. Capracotta 5 giugno 1916. Caro Filiberto, non ricevo notizie di mio marito Domenico Di Nucci dal 14 maggio u.s. Figurati come sto impensierita. Vivamente ti prego di scrivere al Di Rienzo con cui ti trovi in relazione, domandandogli nuove di mio marito. Grazie del favore e con stima ti saluto. Filomena Carnevale. P.S. Appena ricevi notizie fammi subito sapere qualche cosa. Abbiti i saluti affettuosi di Alfredo Conti».
Nonostante Filomena sapesse leggere e scrivere, si affidò al farmacista don Alfredo Conti per inoltrare la richiesta d’aiuto all’amico e vicino di casa Filiberto. In preda alla disperazione più cupa, attese invano che l’amico le comunicasse qualcosa. E così dopo qualche mese perse le ultime speranze di rivedere vivo il marito. Non riusciva a capacitarsi che dopo l’ultima breve licenza del marzo 1915 non l’avrebbe più visto; quella maledetta guerra aveva persino negato a Domenico la gioia di abbracciare il figlio Carmine, nato l’antivigilia di Natale del 1915. Fece di tutto per non far pesare la tragica situazione al piccolo, ulteriore vittima innocente di un’immane tragedia.
Passarono giorni, passarono mesi. Si vestì a lutto, chiusa nel suo dolore. Ormai sapeva come il ministero della guerra comunicava con telegramma a tante famiglie capracottesi che un soldato era morto. Si aggrappò ad una tenue speranza … non le era ancora giunta la fatidica comunicazione. Poi alla speranza seguiva l’angoscia, immaginando che il marito fosse morto chissà dove e che non avrebbe avuto nemmeno la consolazione di sapere dove fosse sepolto.
Il 18 aprile 1917, in una fredda giornata di sole, si diffuse a Capracotta, come il vento, la straordinaria notizia che Domenico, che ormai tutti davano per morto, era tornato! In tanti accorsero in Piazza. È vivo! È vivo! Si ripeteva continuamente Filomena fin quando, di corsa e con il piccolo Carmine in braccio, giunse in Piazza.
Due soldati, con una visibile croce rossa sulla divisa, stavano scaricando dalla corriera un’improvvisata lettiga. E Domenico così riabbracciò i suoi cari. Fu trasportato a casa, in Via Nicola Falconi 10, su una traglia (uno slittone) trainato da cavalli; i due soldati dopo averlo sistemato sul letto, compiuto il loro dovere, salutarono. Domenico fu investito, come logico, da una miriade di domande. Affaticato, pallido e sfinito anche per il lungo viaggio iniziato il giorno prima, ebbe solo la forza di sussurrare … menu male ca so angora vive! (meno male che sono ancora vivo!). Non era il momento di raccontare e nei suoi occhi cerulei la gioia del ritorno era offuscata da quanto aveva visto e subito. Poi chiese a Filomena di togliere la coperta che lo copriva e alla gioia del ritorno subentrò la disperazione: aveva le gambe fasciate dal ginocchio in giù e si intuiva che sotto le bende macchiate di sangue c’era qualcosa di anomalo. Filomena tolse velocemente quelle fasce e per poco non svenne! Ferite ancora aperte e sanguinanti, gambe con evidenti fratture, piedi ridotti a due monconi. Menu male ca so angora vive, ripeté Domenico con un filo di voce!
Domenico non dormì quella notte; per troppo tempo il suo era stato il particolare sonno leggero dei soldati in trincea, pronti a scattare al minimo segnale che potesse far presagire un pericolo. A casa, al sicuro, in quella specie di torpore ripercorreva mentalmente la sua vita e passavano davanti agli occhi le immagini di quando faceva il carbonaio, del lungo viaggio in mare a 16 anni verso gli Stati Uniti, della piacevole scoperta che lì non si usava lavorare dall’alba al tramonto, dell’arrivo della chiamata alle armi, del ritorno per servire la patria, del momento felice delle nozze.
Ogni tanto però tornavano gli incubi ed era come se stesse di nuovo in trincea su Monte San Michele in attesa che i superiori dessero l’ordine dell’assalto alla vicina trincea nemica che era protetta da un enorme reticolato e da un muro a secco; ogni tanto da lì partiva un inferno di fuoco con sventagliate di mitra e con bombe a mano che scoppiavano qualche metro dopo la barriera di filo spinato. Rivedeva la fitta coltre di nebbia che avvolse le trincee la mattina del 20 marzo 1916, riascoltava l’ordine dei superiori…” andate a creare un varco in quel reticolato”, l’assordante rumore che dalla trincea italiana copriva il rumore secco delle cesoie che tagliavano il filo spinato. Si rivedeva lì, caporale della squadra di guastatori, quando, quasi alla fine del lavoro, la nebbia sparì, svanì la sorpresa e dalla trincea nemica partì una grandinata di bombe a mano. E si svegliava sudato e atterrito e si incupiva nel ricordare i compagni con la carne a brandelli, il dolore lancinante alle gambe e il sangue che fuoriusciva copioso dalle sue ferite. Si immobilizzava nel letto proprio come fece lì disteso, indifeso, prossimo a morire. Gli sembrava di rivedere la nebbia che tornava rapidamente come era sparita. Poi ricordava la felicità del momento in cui riaprì gli occhi in un ospedaletto da campo. Piano piano riacquistò le forze, gli incubi si attenuarono e ricominciò a vivere nonostante fosse impossibilitato a muoversi. Cancellò dalla mente anche il lungo periodo durato oltre un anno tra fatiscenti ospedaletti da campo, in un continuo alternarsi di mesi di totale incoscienza e di brevissimi periodi di lucidità.
Non ebbe modo di scrivere a Filomena e quando si decise a farlo gli comunicarono che a giorni sarebbe tornato a casa. Probabilmente sarebbe arrivato prima della lettera. L’anno dopo il ritorno nacque Mario, poi Concetta, Michele, Giovanni, Gina, Italo e Emilio.
Il caporale-guastatore Domenico Di Nucci, classe del 1893, morì l’11 settembre 1965 a Capracotta; per tutta la vita portò i segni di quel tragico 20 marzo del 1916; riacquistò una parziale autonomia quando l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra riuscì a confezionargli speciali scarpe ortopediche; qualche scheggia di ferro ogni tanto faceva dolorosamente capolino tra i lembi delle ferite mai completamente rimarginate.
E dire che quando salutò Filomena, il 22 Agosto 1914, Domenico le promise che al suo ritorno sarebbero andati negli Stati Uniti, lì dove i turni di lavoro non andavano dall’alba al tramonto, lì dove la paga era consistente, lì dove aveva trovato la sua terra promessa.
Domenico Di Nucci