Capracotta ha una sola parrocchia dedicata a Santa Maria Assunta, ma i suoi abitanti preferiscono dividersi in santantoniari e sangiovannari, in relazione alle due chiese poste ai due estremi del paese. E sebbene il protettore sia San Sebastiano, come si deduce anche dai nomi di tanti capracottesi, neanche una chiesa gli è dedicata perché Capracotta sta tutta raccolta nella sua chiesa Madre che, per essere posta nel più alto di tutti i paesi degli Appennini, certamente è la parrocchiale più vicina al Cielo. Una chiesa dall’interno arioso e solenne che, sviluppandosi spazialmente in tre navate, si mostra con un’apparente strutturazione architettonica settecentesca, come ricordano le lapidi relative ai suoi restauri. In realtà credo che nasconda nel suo impianto originario i caratteri di una basilica desideriana, cioè della stessa epoca dei primi feudatari, sicuramente legati all’abate filo-normanno di Montecassino. Notevole il suo organo monumentale e l’altare marmoreo che è riconducibile a quei marmorari che si formarono alla scuola di Norberto Di Cicco di Pescocostanzo. […] E quel campanile, che una volta era staccato dalla chiesa più antica, aveva una funzione importante nella vita del paese. Un vero e proprio gigantesco strumento musicale che, con le sue note, comunicava con il territorio annunziando cose liete e cose tristi, ritmando le ore, richiamando il popolo nei momenti di pericolo, avvertendo che a mezzo giorno ci si ferma per mangiare. E a suonare le note era sempre un sagrestano maschio, che poteva uscire di casa anche quando faceva la neve o tirava la filippina. Perciò, quando per questioni pratiche il compito fu affidato a Carmela, che aveva la casa di fronte alla chiesa e che doveva pensare anche alle sue faccende domestiche, si pose il problema delle scampanate nel periodo invernale. A Capracotta, come osservò un arguto venditore di terraglie napoletano, fa dieci mesi di freddo e due di fresco, così Carmela risolse il problema solo come un capracottese poteva risolverlo. Legò una fune al battaglio del campanone e, attraversando la piazza, legò il capo al davanzale della cucina. E ogni volta che scoccava l’ora si affacciava alla finestra e, tirando la fune, neve o filippina, faceva rintoccare la campana.
FRANCO VALENTE, “Luoghi antichi della provincia di Isernia”, Enne, Bari 2003