Il basto
Dal latino “bastum” è un termine che deriva dal greco “bastazo” che significa “porto sopra, trasporto”. Infatti il basto era uno strumento di lavoro degli agricoltori, una sella robusta destinata ad animali da soma per il trasporto dei prodotti della terra come covoni di grano, fieno, sacchi di granone, bigonce di uva, legna ma anche letame per la concimazione dei campi. In dialetto è chiamato “varda” con termine derivante dal medioevale “bardatura”, ma anche “ru ‘mmoste”; ragion per cui l’artigiano che lo produceva era il “ bastaio” chiamato pure “ ru vardare” o “ ru ‘mmastare”.
Pasquale Di Loreto
Fermare entro alcune note essenziali la vita di mio padre, non richiede molto spazio e nemmeno molto tempo, perché la sua esistenza si è snodata entro le comuni coordinate della quotidianità. Nato a Capracotta il 15 maggio 1906, venne chiamato Pasquale in onore del santo del giorno. Suo padre, tatone Vincenzo, praticava il mestiere di bastaio, e sua madre, mamma Lena (Elena) Monaco, era casalinga, ma lavorava anche i campi per contribuire al sostegno della famiglia. Mio padre e mio zio Giovanni lavoravano nella bottega del padre, mentre mia nonna si faceva aiutare dalle tre figlie Mariuccia, Nicoletta e Cristina nei suoi lavori quotidiani quando non erano impegnate nel ricamo o nella filatura e tessitura della lana.
Poiché a Capracotta le botteghe artigiane che producevano la “varda” erano piuttosto numerose dato che il basto era un attrezzo di lavoro indispensabile per la locale economia agricola, mio padre andò a cercare lavoro nella vicina Agnone e lo trovò nella bottega dei miei bisnonni Angelo Cacciavillani e Filomena Iannelli il cui unico figlio maschio, Vincenzo (mio nonno) aveva dovuto interrompere il lavoro tradizionale perché colpito da un male inesorabile che lo stava condannando alla paralisi graduale e progressiva degli arti. Mio nonno era già sposato ed era padre di otto figlie, (l’ultima delle quali, zia Emma, contava appena cinque anni), e il suo posto nella bottega per la lavorazione dei basti, fu preso da mio padre. Questi, nel 1930, sposò mia madre Guglielmina, la prima delle otto, donna molto bella, di intelligenza non comune e infaticabile lavoratrice. Vivendo in casa dei suoceri, si assunse praticamente anche l’onere di concorrere al sostentamento della famiglia dei miei nonni materni nonostante il consistente apporto dello stipendio di mia nonna Carmela, portalettere rurale, al soddisfacimento delle necessità quotidiane. Nel 1932 sono nata io e, dopo di me, i miei genitori hanno dato vita ad altri sette figli, altre quattro femmine (Carmelina, Giulia, Rosaria e Rita) e tre maschi (Vincenzo, Antonio e Giuseppe). Dico questo perché nei miei ricordi personali c’è una costante inalterata e ineludibile: il numero elevato di componenti il nucleo familiare, il via vai continuo di persone, il cerchio di sedie intorno al focolare sempre acceso, il numero di letti nelle camere, i piatti disposti sulla grande tavola che si apriva a libro quotidianamente all’ora dei pasti e quando, nelle feste natalizie, si giocava a tombola. Proprio l’esigenza di un maggiore spazio, indusse i miei genitori a crearsi un nucleo familiare autonomo che ci unì più strettamente.
Sebbene la frequenza della scuola elementare si fosse fermata ai primi anni, mio padre si rivelò un educatore straordinario, capace di coniugare perfettamente amore e severità, disponibilità al passatempo sereno, ma anche intransigenza nel rispetto delle regole e nel dovere da compiere. Era lui stesso a darne l’esempio col suo comportamento in famiglia e nella società civile. Il lavoro era, per lui, un culto; raramente si concedeva un po’ di riposo, e anche durante quelle brevi parentesi sapeva impegnarsi per fare qualcosa di utile. Ricordo con quanta curiosità osservava le cartine geografiche dell’atlante per rendersi conto su quali terre erano emigrati amici e conoscenti. Si soffermava particolarmente sui punti dove sorgeva Malta e dove era indicata la città di Tripoli, località che aveva conosciuto direttamente quando aveva espletato il servizio militare. Probabilmente il loro ricordo gli poneva di fronte un mondo più dilatato che lo sbalzava lontano dalla bottega, da quella sedia di lavoro ai cui lati erano infilzati aghi di ogni dimensione per essere a portata di mano all’occorrenza e da quel locale dove si ergevano cataste di “corve” già rifinite usando sega, ascia e trapano a mano (“ru vérdele”). Quest’arnese è stato usato anche da me e dai miei fratelli quando siamo stati in grado, con le nostre forze, di produrre nel legno quei grossi buchi attraverso i quali le “corve” dovevano essere cucite sulla pelle equina o suina che sovrastava il “fusti”. Le mani si ricoprivano di calli, però papà ci ricompensava sempre per la mano d’aiuto che gli davamo.
Il lavoro lo assorbiva a tal punto, che il cuore cominciò a rivelare le conseguenze dell’affaticamento. Tuttavia, nemmeno la sofferenza riusciva a ridimensionare le sue prestazioni. La giornata cominciava sempre alle sei del mattino e si concludeva alle sette della sera, anzi, veniva prolungata in maniera considerevole quando si doveva partire per le fiere che si tenevano a Castiglione Messer Marino, a Carunchio, a Pietrabbondante. Quelle occasioni venivano molto attese perché significavano la ripresa economica e che era superata “la costa di maggio”. Il carro caricato di basti nuovi partiva subito dopo la mezzanotte per raggiungere di buon mattino il paese di destinazione e garantirsi il posto strategicamente più idoneo alla vendita e ad attrarre il cliente a scapito della concorrenza. Quanti chilometri ha percorso mio padre sballottato sul “traino” col suo cuore malfermo, sostenuto dalla speranza di un consistente guadagno! Tanto più cha da esso derivava anche il sostegno della famiglia dell’operaio che era diventato il suo braccio destro. La disponibilità umana di mio padre era favolosa, la condivisione dei problemi degli altri, compresi i clienti, finiva sempre col prevalere sulla logica del profitto al punto che gli introiti del lavoro finivano col coprire a mala pena i costi di produzione.
Anche mia madre la pensava allo stesso modo, e se al posto della moneta alcuni clienti soddisfacevano i loro impegni con prodotti dei campi, accettava il baratto perché, diceva, tutti devono vivere, “le bocche sono sorelle”.
Mio padre era orgoglioso di tutta la famiglia e contava molto su di me che, aiutata da zia Dora sorella di mamma, frequentavo a Lanciano il Liceo Classico. Quando alla fine dell’anno scolastico rientravo in famiglia e conosceva l’esito del mio studio, non riusciva a trattenere le lacrime, e quell’espressione valeva per me più di una festa o di un regalo, premi che a casa mia non erano neppure concepiti visto che ogni lavoro doveva essere inteso come un dovere. L’orgoglio per la meta raggiunta fu l’unico premio sia quando conseguii la maturità classica nel 1950, quella magistrale nel 1951 (studiando privatamente) sia quando superai il concorso magistrale nel 1953.
Purtroppo, la grave malattia cardiaca che affliggeva mio padre non gli dava tregua, ma non abbiamo mai sentito un lamento, né assistito ad un distacco dal lavoro fino a quell’11 novembre 1963 quando il suo cuore cessò di battere per sempre.
Ricordo che pochi mesi prima della sua morte, conclusi i festeggiamenti in onore della Madonna di Loreto, papà mi chiese di accompagnarlo a Capracotta con l’automobile da poco acquistata, perché voleva salutare anche lui la Vergine venerata nel suo paese. Cercai di dissuaderlo perché ero venuta da poco in possesso della patente e fuori diluviava; ma quando notai la delusione e lo sconforto che le mie parole avevano provocato il lui, decisi di accontentarlo.
Quando arrivammo ai piedi della scalinata davanti al Santuario pioveva ancora a dirotto, ma mio padre fu lesto a guadagnare la porta spalancata e la chiesa ancora illuminata dai ceri che avevano accompagnato le funzioni. Lo trovai inginocchiato ai piedi della Vergine, raccolto nella preghiera formulata in silenzio, con quella purezza di fede di cui sono capaci solo le persone umili. Fui contenta di aver risposto positivamente alla sua richiesta e gli ero grata per quell’ennesima lezione di amore che mi stava dando nel rivedere uno dei luoghi cari alla sua memoria e da cui la vita lo aveva tenuto lontano.
Quell’immagine rivivevo mentre lo guardavo composto nel suo letto di morte, con le mani che non riuscivano a congiungersi, perché erano troppo nodose quelle dita che il lavoro aveva modellato come fa il vento su certe sporgenze rocciose.
Maria Di Loreto in Barrassi