In un giorno di fine maggio del 1945 mentre giocavo davanti casa, mio nonno Eugenio fu avvisato da un amico che stava tornando il figlio Filoteo. In una attimo mi prese in braccio e velocemente quasi correndo, si inoltrò nel bosco di Vallesorda.
Assistetti al commovente incontro. Ebbi modo di conoscere mio zio che era partito prima che io nascessi. La sua guerra finì prima di cominciare; non sparò nemmeno un colpo di fucile e il giorno 11 novembre 1943 fu catturato dai tedeschi, disarmato e internato a Mauthausen-Gusen che fu il solo campo nazista classificato di classe 3, vale a dire campo di punizione e di annientamento attraverso il lavoro forzato nella vicina cava di granito.
Tornò e pesava solo 39 chili, praticamente era pelle e ossa. Recuperò molto lentamente e fu sempre restio a raccontare cosa accadde durante la permanenza nel campo perché evidentemente raccontare era per lui come rivivere tanti momenti di dolore. Dopo tanti anni ebbi occasione di dormire con lui, a casa nostra, nella stessa camera. Allora stavo leggendo un libro scritto da un ebreo che raccontava le atrocità commesse dai nazisti in quel campo e chiesi a lui se era vero. Confermò tutto e, in via del tutto eccezionale e su mia insistenza, mi raccontò qualche episodio.
Prima di tutto mi raccontò che in quel campo era internato, per sua fortuna, anche un paesano, Luciano Rosa detto Ciàrosa, che era addetto alle cucine. Quando poteva il buon Luciano gli portava di nascosto e rischiando la vita scorze crude di patata che era costretto a mangiare e che forse lo mantennero in vita. È sintomatico che in uno sperduto angolo del mondo, qual era quel campo di annientamento, un capracottese incontrasse un compaesano che lo aiutasse a sopravvivere e che entrambi si salvassero. Non si dilungò molto sui crudeli metodi, mi accennò solo alla famigerata e ripida scala della morte di 186 gradini che dalla cava di granito portava a livello del terreno e che gli internati erano costretti a salire con un pietra sulle spalle … molte volte giunti in cima venivano scaraventati giù. Mi accennò ad un’autoambulanza che girava continuamente nel campo apparentemente senza motivo: poi scoprirono che era una piccola camera a gas ambulante; che la fame, il freddo e i pidocchi falciavano gli internati.
Ogni mattina di buon’ora e con qualsiasi tempo le porte della baracca venivano spalancate e tutti si recavano nella latrina. Dopo alcuni giorni che rimbombavano colpi di cannone in lontananza, una mattina non si aprirono le porte della baracca e tutti restarono rinchiusi per timore di andare incontro ad una mitragliatrice pronta a far fuoco. Scoprirono dopo che gli aguzzini erano fuggiti all’avvicinarsi delle truppe alleate; il campo passò immediatamente alle dipendenze dei russi e mi raccontò che come prima cosa i pochi sopravvissuti furono spogliati e con grandissimo loro disagio visitati da una dottoressa dell’armata russa che li fece disinfettare con un pennellessa.
Fu alloggiato dai russi presso una famiglia di contadini cecoslovacchi che lo accolsero benevolmente e che maliziosamente davano l’impressione di volerlo dare in sposo alla giovane e avvenente figlia. Non avevano però considerato che a Capracotta c’era la fidanzata Idea Vizzoca che l’aspettava.
Successivamente, a Innsbruk, fu consegnato alle truppe americane e su un vagone scoperto, in attesa che il treno partisse, era seduto accanto ad un amico internato. Un soldato statunitense, seduto di fronte a lui, stava pulendo il suo fucile e inavvertitamente fece partire un colpo che centrò in pieno petto l’amico che morì. Mi disse che non ebbe mai il coraggio di raccontare l’episodio ai familiari dello sfortunato soldato. Secondo i dati ufficiali in quel campo morirono oltre 180.000 internati tra cui 5.750 italiani. Nei giorni successivi alla liberazione, perse i contatti con Luciano e restò in pena fino a quando non lo riabbracciò a Capracotta.
Riacquistò le forze ma non dimenticò; portò dentro le tracce indelebili del suo dolore; non mangiò più patate e pretese sempre che in casa ci fosse pane a sufficienza. Al momento del suo ritorno Idea era ancora sfollata in Agnone; si sposarono nel 1946 e ebbero 5 figlie ancora viventi. Conservò con maniacale cura la piastrina di latta che era obbligato a portare al collo.
Il 27 gennaio 2011 in occasione della ricorrenza della giornata della memoria gli fu conferita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri una medaglia d’oro alla Memoria consegnata dal prefetto d’Isernia alla figlia Marianicola. In questo giorno della memoria ho deciso di raccontare e pubblicare la sua storia e ogni altro commento è superfluo.
Eugenio Giuliano
(con la collaborazione di Domenico Di Nucci)