Avrei potuto scegliere Rudy Krol al quale mi ispiravo, le sue cavigliere bianche, i suoi lanci. Avrei anche potuto scegliere Nestor Combin che si produsse nel primo gesto tecnico che ammirai davanti alla tv quando avevo cinque-sei anni in un Milan-Fiorentina non certo passato alla storia. E a dirla tutta avrei potuto scegliere Marco Van Basten, Rivera, Maradona, Kevin Keegan, Falcao, Roberto Baggio… Ma scelgo lui, Erasmo Iacovone.
Chi era costui?
Arrivò a Taranto nel novembre del 1976. Il Taranto Calcio era il regno di un macellaio-presidente, Giovanni Fico, che a noi tarantini faceva ingoiare bocconi amari perché lungi dal saccheggiare i guadagni del mattatoio portava a casa, in un’intera campagna acquisti, chessò… Bussalino, un difensore prelevato dal Brescia. La tribù ionica faceva buon viso a cattivo gioco e si arroccava nella speranza di una salvezza all’ultima giornata, magari in uno scontro diretto contro la Spal di Ferrara piegata al novantesimo grazie a un’autorete. E invece quel novembre del ’76 arrivò questo ricciuto baffone un po’ sovrappeso. Veniva dal Mantova. Era un uomo del Sud nato a Capracotta, in Molise.
Il primo anno giocò accanto a Jacomuzzi e segnò otto gol, tutti di testa. Per elevazione batteva anche Beppe Savoldi (mister miliardo). Ruvido e legnoso con la palla tra i piedi, volava nel cielo dell’area di rigore avversaria e raggiungeva vette e palloni fuori portata per tutti gli altri. I terzini o le ali non dovevano fare altro che crossare fuori misura e lui … ci arrivava. Iacovone è il simbolo di una città innamorata del calcio, ma che dal calcio non ha mai ricevuto nulla. Lunga e anonima militanza in Serie B, campionati al cardiopalma in C e poi il de profundis tra fallimenti, squali, sciacalli, venditori di macchine agricole e truffatori che hanno lasciato il segno più nei tribunali sportivi e ordinari che nell’albo d’oro. L’apice di questa malasuerte è rappresentata da Erasmo Iacovone.
Nel campionato 1977-’78 il ragazzo di Capracotta con la faccia da garzone di bottega, ma con la magia dell’uomo da area di rigore, si mette la squadra sulle spalle e la porta ai vertici del campionato di Serie B. Insomma, per la prima volta il Taranto lotta per la Serie A. Lo stadio Salinella è una bolgia e il popolo rossoblù inneggia ai suoi gol. Io al campo ci andavo con mio zio. Mi portava per mano per farmi entrare gratis in gradinata fino a che crebbi troppo e dovemmo iniziare a pagare il biglietto. Era lì, in gradinata, che soffrivamo e godevamo quando battevamo il Bari o sconfiggevamo avversari storici e più titolati come il Modena, il Como o il Cagliari. Poi sarebbe arrivata la militanza tra gli ultrà in Curva.
Negli anni Settanta il Salinella sfiorava quasi sempre i ventimila spettatori. Era uno stadio all’inglese: legno e tungsteno. Mia madre a qualche chilometro di distanza si accorgeva di un gol del Taranto per via del boato che arrivava fino al mio quartiere. Eppure lo stadio era lontano, sorto in uno dei rioni satellitari della città: un caseggiato dopo l’altro, tute delle acciaierie appese ai fili gommati. Gente sconfitta affacciata alle finestre. Nel frattempo Iacovone era diventato bravo anche con i piedi. Al Bari segnò con un delizioso pallonetto mentre nell’altra area di rigore Aldo Serena restava all’asciutto.
Ora dribblava, giocava di sponda ed era dimagrito acquistando in velocità. I lanci illuminanti di Franco Selvaggi (uno che avrebbe vinto il Mundial dell’82) erano tutti per lui. I cross di Graziano Gori una manna per la sua elevazione. Aveva ventisei anni ed era nel pieno della maturazione calcistica. Il presidente Fico, il vecchio macellaio, ricevette molte richieste per l’attaccante. Il suo numero nove lo volevano la Roma di Gustavo Giagnoni e, soprattutto, la Fiorentina perché Ezio Sella segnava poco. A novembre la dirigenza fu subissata di richieste, ma Giovanni Fico decise di resistere alle sirene ammaliatrici e tenersi Iacovone. Per la tifoseria in ansia fu una liberazione. Per Iacovone invece quel niet si trasformò in una condanna a morte.
La domenica pomeriggio del 5 febbraio del ’78 il Taranto ricevette la Cremonese. Io ero al solito sugli spalti. Ci fu un vero e proprio arrembaggio e Iacovone cercò di bucare in tutti i modi un Alberto Ginulfi particolarmente ispirato. Divenne una sfida all’interno della gara. Erasmo calciava di destro, sinistro e tentò un paio di colpi di testa, ma Ginulfi gli negò il gol andando a prendere il cuoio all’incrocio dei pali un paio di volte. Finì 0-0, ma la squadra e Iacovone uscirono tra gli applausi. La maglia era stata sudata e onorata. E ormai era esploso l’amore tra la tifoseria ed Erasmo. Nonostante l’improvvisa notorietà, infatti, era rimasto il ragazzo semplice di uno sperduto paese del molisano. Riservato, timido, impacciato nelle interviste. Il suo hobby era cucinare per sé e per la moglie Paola che ai tempi era in attesa di una bambina.
Ma, sì sa, i miti si costruiscono anche sull’epica della morte. Durante la notte la sua Diane 2 cavalli fu sbriciolata da un’Alfa 2000 che viaggiava a fari spenti sulla Taranto-San Giorgio. Alla guida un ladro di automobili in fuga. Iacovone stava rientrando a casa dopo aver passato la serata con amici e calciatori in un locale fuori città.
Ecco, ancora oggi penso che lui sia l’emblema della città. Iacovone nell’arco di una manciata di mesi aveva incarnato l’anonimato, la speranza, il successo e all’apice della sua parabola era sopraggiunta la tragedia. Un uomo che incarna il destino di un popolo. Il boom, l’acciaio, il benessere e poi il cancro, la gogna sociale, le stimmate della città mortale. Si può piangere per un calciatore? Ai tempi avevo quasi quindici anni e marinai la scuola per andare ai funerali di Erasmo Iacovone celebrati nello stadio Salinella.
La notizia della morte me la diede mio padre quando mi svegliai per andare a scuola.
«’A muerte Iacovone… hann’arrestato Zelico Petrovic (il portiere di quel Taranto, ndr) che voleva andare ad ammazzare quello che lo ha investito. Vestiti che è tardi!»
Fu allora che mi accorsi che quell’uomo mi aveva permesso di sognare. Piansi, dunque. E a piangere fu tutta la città e anche l’uomo duro, il macellaio, che davanti ai microfoni si percosse il petto per non aver ceduto in novembre il ragazzo alla Fiorentina. A tempo di record gli venne intitolato lo stadio di Taranto. E oggi, anche militando in serie di poco prestigio, continuiamo ad andare allo stadio, allo Iacovone, e c’è sempre un momento durante ogni partita in cui si inneggia a lui, a Iacogol! Riconoscenza, senso di appartenenza, affetto … che vi devo dire. A volte succede. A volte accade che un popolo si identifichi e si innamori del più schivo tra i suoi eroi. Un eroe tragico il cui nome riecheggia a distanza di decenni in uno stadio del profondo Sud.
Cosimo Argentina
Fonte: Avvenire.it