Il medico svizzero Alexandre Yersin
Come medico ospedaliero, ho sempre subito il grande fascino della storia della medicina soprattutto in tema di grandi epidemie del passato: riflettendo principalmente sul fatto che, per tantissimi secoli, di tali drammatici eventi morbosi non si conosceva assolutamente nulla o quasi circa gli agenti infettivi che li provocavano e i loro possibili rimedi. Uno di questi è stato l’epidemia di peste che si verificò nel 1656 nel Mezzogiorno d’Italia stentando davvero a credere che nel paese dove sono nato, Capracotta, morirono in appena una quarantina di giorni 1126 persone su circa duemila abitanti.
Il batterio. La scoperta di Alexandre Yersin
Il bacillo della peste è stato scoperto dal medico svizzero Alexandre Yersin a Hong Kong durante l’epidemia del 1894. Tant’è vero che porta il suo nome: Yersinia Pestis. Questo studioso elvetico di lingua francese, in verità, gli aveva dato il nome di “Pasteurella Pestis” in onore dello scienziato transalpino Louis Pasteur, che era stato il primo a realizzare il vaccino per il vaiolo. Alexandre Yersin si era recato in Estremo Oriente nel 1890 preferendo esercitare la professione di medico di bordo in Vietnam a un più prestigioso e redditizio impiego presso l’Istituto Pasteur di Parigi.
In Estremo Oriente, Alexandre Yersin si dedicò ad assistere la popolazione povera di quei luoghi nel periodo precedente la sua più importante scoperta e a dirigere, tra l’altro, la Scuola di Medicina ad Hanoi e l’Istituto Pasteur di Saigon e Nha Trang in Vietnam.
Fu in quest’ultima città che Alexandre Yersin morì nel 1943, per singolare coincidenza nell’anno stesso della distruzione di Capracotta da parte delle truppe tedesche in ritirata durante l’ultimo conflitto mondiale: letteralmente venerato da quelle popolazioni asiatiche e pressoché ignorato da quelle europee e francesi in particolare.
Trasmissione e trattamento della malattia
Yersinia Pestis è un batterio abbastanza comune che, per molti aspetti, assomiglia a microbi assai meno patogeni come il “Bacterium coli” (Escherichia coli), o la Yersinia enterocolitica”. Viene trasmessa dalle pulci dei topi e quindi appare evidente l’importanza, ai fini della sua diffusione, di gravi carenze igienico-sanitarie, di altrettanto gravi carestie, guerre, ecc. In tempo di epidemia, però, la trasmissione può avvenire anche da uomo a uomo: possono esserne vettori anche le pulci umane o i pidocchi.
Dopo una incubazione di 2-5 giorni, la malattia ha inizio con febbre alta, dolori di capo e alla colonna vertebrale, vertigini, delirio e altri disturbi poco tipici. Si conoscono sostanzialmente due forme di peste: la forma “bubbonica” e quella polmonare. Nella peste bubbonica, i linfonodi degli ammalati, specie delle sedi inguinali e ascellari, vanno incontro a grave “adenite suppurativa” con successiva fistolizzazione: nelle persone poi, che in minima percentuale riescono a guarire, si mantengono gravi esiti cicatriziali a livello dei bubboni. Ma la forma più grave è certamente quella polmonare. Si trasmette oltre tutto assai facilmente per via aerea mediante la tosse, gli starnuti, il vomito e così via e, in una certa percentuale di casi e nelle persone più defedate, può comportarsi come una vera “setticemia”: quindi con un gravissimo shock settico, impegno renale, cardiaco, ecc.
In passato, la prognosi della peste era estremamente grave: la mortalità per la peste bubbonica si aggirava intorno al 40-50% dei casi; quasi del 100% quella per la peste polmonare. Oggigiorno, è notevolmente migliorata grazie all’uso, entro le prime 24 ore dalla comparsa dei sintomi, di antibiotici specifici con streptomicina, gentamicina, tetracicline o cloramfenicolo. La profilassi richiede l’isolamento degli ammalati e dei portatori di bacilli pestosi, la derattizzazione, la lotta contro le pulci e il trattamento con antibiotici per sette giorni anche delle persone che siano entrate in contatto con un malato.
Peste e “pestilenze”
Nel passato, i termini “peste” e “pestilenza” sono stati spesso usati indistintamente per indicare qualsiasi epidemia estremamente contagiosa e con tassi di mortalità elevati. Perciò, non sappiamo effettivamente quante volte, nella storia, si sia trattato di vera infezione da Yersinia Pestis oppure di qualsiasi altra grave epidemia come, per esempio, tifo o febbri emorragiche. Della peste ne parlano già gli Egizi duemila anni prima di Cristo. Nelle Sacre Scritture, ricorre spesso l’immagine di Dio punitore che scaglia sulla terra, o minaccia di farlo, contro l’umanità vari flagelli, tra cui la la peste. La storiografia ci tramanda una epidemia di peste, cosiddetta “di Atene”, avvenuta in Grecia nel 430-429 a.C. durante la Guerra del Peloponneso per arrivare, in tempi più recenti, alla cosiddetta Peste Nera, che uccise almeno un terzo della popolazione europea fra il 1347 e il 1353, e alla Peste del 1656- 1658 che colpì duramente l’allora Regno di Napoli.
Per quanto riguarda quest’ultima, siamo sicuri che si trattò di vera peste perché è stato
possibile individuare il dna del batterio patogeno dalla polpa dei denti non erotti delle persone decedute per questa infezione in quel periodo.
L’ultima grande pandemia si diffuse nel 1894 (epoca della scoperta di Yersin) prima dall’India e poi in diverse aree (Canton, Hong Kong, Taiwan e Giappone), compresi gli Stati Uniti, dove la malattia continua a rimanere endemica in alcune popolazioni di roditori. Le epidemie più recenti si sono si sono avute in India (1984), Uganda (1998), Namibia (1999), Malawi (1999), Libia (2009) e Madagascar (2014-2015).
La peste del 1656 a Capracotta
Passando alla peste del 1656 a Capracotta, appare senza dubbio impressionante il numero dei morti che, nel periodo che va dal 3 agosto al 13 settembre, ammonta a ben 1126 con un tasso di mortalità superiore al 50%. Ma non ci si può meravigliare più di tanto pensando che, per esempio, a Casacalenda i decessi sarebbero stati 470 su 810 abitanti, e a Chieti oltre 4.000 su poco meno di 10.000 residenti: è stato infatti calcolato che quella epidemia di peste abbia provocato la scomparsa di circa 1.250.000 individui in tutto il Regno di Napoli con tassi di mortalità che variano dal 43% in generale a oltre il 50% della capitale, Napoli.
I tre grafici che seguono riportano quanto successo giornalmente nelle tre fasi cruciali: dal 3 al 16 agosto l’epidemia presenta un andamento crescente in modo regolare esclusi i due picchi di 31 e 28 morti nei giorni 11 e 12 agosto
Anche nella fase intermedia, i pochi morti del 19 agosto potrebbero far pensare che ormai l’epidemia ha imboccato la fase calante ; invece c’è la recrudescenza del 21 agosto con 56 morti e da quel giorno escluso il valore anomalo del 25 agosto, l’epidemia si è mantenuta quasi costante passando dai 39 morti del 17 agosto ai 32 del 30 agosto.
Da questo giorno inizia la fase finale passando da 31 morti del 31 agosto ed eccetto il picco di 32 morti del 5 settembre, ai 12 morti del 7 settembre. Segue una stabilizzazione per tre giorni seguita da una breve fase crescente per poi scendere ai 14 morti del 12 settembre e concludersi con una impennata il 13 settembre.
Non mi sembra facile interpretare l’apparente “capricciosità” nell’andamento giornaliero o settimanale dei tantissimi decessi a Capracotta per la cui analisi più dettagliata sarebbe estremamente importante partire almeno dall’età media degli appestati. Personalmente, ritengo che siano state importanti nel determinare i singolari picchi crescenti o decrescenti della mortalità stessa le tante possibili comorbidità dei pazienti colpiti e soprattutto la sovrapposizione, certamente non quantizzabile, di affezioni e/o infezioni intercorrenti non trascurando, naturalmente, la diversa disponibilità in diversi nuclei famigliari di un pur minimo supporto nutritivo e/o assistenziale. Meno sorprendente, sempre a mio giudizio, la cessazione apparentemente repentina e definitiva dei decessi dopo il 13 settembre: è verosimile infatti che le persone sopravvissute, guarite o meno dalla malattia, avessero comunque sviluppato una efficace immunizzazione naturale nei confronti della Yersinia Pestis.
In conclusione, non posso che assicurare la mia più umile preghiera per i tanti concittadini scomparsi con un pensiero di riconoscenza per i pochi valorosi sopravvissuti che sono riusciti a non farsi cancellare da questa immane tragedia. È sorprendente, anzi, che proprio in questi giorni, osservando una mappa spagnola del 1660 dell’Abruzzo e del Molise, abbia avuto il piacere di leggervi ancora il carissimo nome di “Crapa Cotta”.
Aldo Trotta
Questo testo è tratto dal volume “Anno Domini 1656. La peste a Capracotta”, edito dall’Associazione “Amici di Capracotta” nell’anno 2015. Chiunque sia interessato alla pubblicazione, può contattare l’Associazione via e-mail (amicidicapracotta@yahoo.it; associazioneamicidicapracotta@gmail.com) oppure attraverso i canali social dell’Associazione: twitter e facebook (pagina e gruppo).