Ogni fumatore aveva una piccola scatola di latta per contenere il tabacco, chiamata “tabbacchèra” (tabacchiera) ed era della giusta misura sia per contenere un pacchetto di trinciato che, con un fermaglio, un pacchetto di cartine.
I fumatori nel momento del bisogno, presa una manciatina di tabacco, la distribuivano sulla cartina con gli indici e con un movimento sincronizzato, pollice, indice e medio arrotolavano la cartina che veniva passata sulla lingua per completare la confezione della sigaretta. In mancanza di cartine era la carta di giornale o la carta velina che veniva usata.
Prima che gli zolfanelli fossero alla portata di tutte le tasche, l’accensione della sigaretta avveniva battendo tra di loro due selci (la pietra focaia) cercando di dirigere le scintille su “rɘ lischɘ” (era un cancro del legno che lo rendeva soffice e leggero) che facilmente prendeva fuoco: un filino di fumo, segnalava che le scintille avevano centrato “rɘ lischɘ”; soffiandoci sopra si creava un piccolo punto acceso che serviva per dare fuoco alla sigaretta; poi il prezioso “lischɘ” veniva spento comprimendolo tra due dita e gelosamente conservato.
Anche mio padre, Carmine (dɘ Carmɘnónɘ) fumava ed armeggiava con tabacchiere, pietre focaie e “lischɘ”; però un anno, prima della Seconda Guerra Mondiale, fu colto da un persistente bruciore di stomaco mentre era come al solito a fare carboni; provò a non bere vino per qualche giorno, ma il fastidio non cessava. Poi provò a mangiare di meno ma oltre alla debolezza restava il solito bruciore; provò anche a non mangiare aglio e cipolla, a non mangiare quella poca carne che veniva cucinata ma inutilmente. Alla fine provò a non fumare e d’incanto il bruciore si attenuò: prese la tabacchiera e con tutta la forza possibile la scagliò lontana nel bosco e non fumò più.
Durante una partita di caccia mio padre era in compagnia dei fidati amici Giovanni Di Lullo (soprannominato Pegniata) e Antonino Beniamino (Ngòkasɘ): dei tre l’unico che fumava era Giovanni che si accorse subito che aveva portato tabacco e cartine ma non gli zolfanelli; con il passar del tempo Giovanni diventava sempre più irrequieto al punto che quando fecero una pausa per fare colazione, avvisò che sarebbe tornato a casa perché non resisteva più senza fumare. I tre cercarono delle selci ma non riuscirono a accendere un ciuffo di paglia; poi mio padre sacrificò una cartuccia, la svuotò e su un rametto secco scavò una piccola cavità che riempì di polvere da sparo. Strofinò a lungo un pezzo di filo di ferro, rimediato da una recinzione, sulla cavità fino a quando la polvere prese fuoco e nella cavità si formò un piccolo carbone acceso.
Zio Giovanni mi raccontò questo episodio qualche anno prima della sua morte sottolineando come mio padre avesse l’inventiva e la capacità di risolvere in modo semplice problemi in apparenza insolubili.
Anche il pacchetto di tabacco costava troppo e se durante l’inverno il fumatore andava a lavorare in Puglia come carbonaio faceva provviste di foglie di tabacco che venivano seccate, trinciate e conservate.
Domenico Di Nucci
(tratto da “I Fiori del Paradiso”)