Si levava prestissimo al mattino, come sempre. Dal giorno della sua venuta al mondo non aveva avuto un minuto libero da spendere per se stessa, fosse anche per chiacchierare di insulsaggini con sua cugina. Rosina, la figlia maggiore di don Pasquale Di Ianni, aveva dapprima allevato i suoi fratelli per poi prendersi cura dei nonni e del padre – che morì vecchissimo – e infine di tutte quelle faccende quotidiane che, in una casa affollata come la sua, erano all’ordine del giorno, ogni giorno.
Rosina aveva un bel personale, forte di salute – mai un raffreddore – e spalle larghe e un petto prosperoso e un bacino abbastanza rotondo per dare alla luce una nidiata di pargoli. Rosina volitiva, Rosina indaffarata, Rosina gran lavoratrice, l’instancabile Rosina.
Suo padre era un ardente oratore, «un esagitato» sibilava lei, talmente ardente da accettar denaro da don Eustachio pur di promuovere con la violenza un moto reazionario nel paese, teso a massacrare i liberali del villaggio, soprattutto i preti. Calzettone – così veniva chiamato don Pasquale – arringava folle e turbi in favore di Francesco II, re del Mezzogiorno, e al suo fianco c’era sempre Cannatella, feroce ed infuocata, una femminaccia che aveva ingenerato nella mamma di Rosina un’acuta gelosia, trasmessa poi a tutti i figli.
La sfera d’influenza delle madri sull’educazione dei figli non è nemmeno paragonabile a quella dei padri, che è quasi assente.
Il nome di don Pasquale veniva poi affiancato a quello di Francescone, celebre bandito di quelle terre, il quale, assieme al compagno Nabisso, aveva grassato e derubato in ogni dove. Il confine tra legalità e banditismo sul quale don Pasquale aveva deciso di vivere, procurava a tutta la famiglia un certo alone di rispetto ossequioso, tra il timore e la riverenza. Al pari dei notabili del paese – nobili per discendenza o per censo – anche questi mercanti potevano contare sulla deferenza di buona parte del popolo, una deferenza certamente più genuina di quella riservata alle caste dei Pettinicchio e dei Castiglione.
Durante i tumulti reazionari del novembre 1860, durati appena tre giorni, don Pasquale era stato arrestato e gli fu inflitta una pena di anni cinque da scontare presso la prigione di Campobasso. Inutile aggiungere che le finanze di casa Di Ianni ne risentirono negativamente, e, proporzionalmente, crebbe l’astio di Rosina per quel padre fanatico ed egoista.
Lei, che ormai aveva una famiglia tutta sua, costituita da un consorte che lavorava degnamente la terra e tre figli da tirare su a pane e schiaffi, si vedeva costretta a governare anche la casa paterna. Correva l’anno del Signore 1861 e la sua vita era stata fagocitata per intero dai due focolari domestici, eppure, di tanto in tanto, aiutava il marito a dissodare la terra brulla della campagna capracottese, per poi raccoglier pietre in luogo di patate. In fondo, pensava, non tutti i mali vengono per nuocere: da mangiare ce n’era per tutti e, col padre in galera, veniva meno anche la gelosia per Cannatella.
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L’inverno era quasi terminato e, cosa assai rara, non era stato particolarmente infido. Poca neve, poco freddo, in compenso tanta pioggia. La primavera si annunciava docile nel villaggio di Capracotta, col gran traffico di uomini, bestie e mezzi a colorarlo di tinte sempre più sgargianti. Anche le giornate andavano via via allungandosi e l’umore di Rosina, per quel che le era consentito, migliorava del pari.
Ma con veemenza cominciarono a giungere idee confuse, un vocio complicato, echi lontani d’una qualche rivoluzione “italiana”, un aggettivo, questo, che a breve sarebbe diventato una giaculatoria, un imperativo, un comandamento. Fatto sta che a Napoli qualcosa era successo, Rosina ne era convintissima. Forse il re era morto all’improvviso, o forse era stato detronizzato; di certo, qualcun’altro ne aveva preso il posto. A casa sua le notizie erano precise ed esaurienti ma non erano destinate alle orecchie delle donne, a meno che non fossero quelle insolenti di Cannatella.
In tutto il paese non si parlava d’altro anche se nessuno sapeva quel che diceva. Alcuni affermavano che Pio IX avesse abdicato o fosse deceduto, altri erano invece convinti che Lasagna fosse morto in séguito ad una stupida caduta da cavallo; altri ancora, più informati o forse meno analfabeti, andavano dicendo che Garibaldi aveva sbaragliato l’esercito borbonico in quattro e quattr’otto, e ora il re non era più napoletano ma piemontese. A breve sarebbe caduta anche Roma, e il papa – dicevano questi – non avrebbe mica sparato agli italiani!
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Quella mattina Rosina, testa alta, busto dritto e una gonna d’alizarina che le arrivava ai malleoli, dopo aver consegnato le bestie al capraro e ordinato ai suoi marmocchi di svegliarsi e acconciarsi in dieci minuti, aveva riordinato la camera per poi passare alla cucina, regno incontrastato di tutte le donne ottocentesche, nobili o plebee che fossero.
Dopo aver rassettato la sua dimora sarebbe andata ad aiutare la madre; poi, tornata nuovamente a casa, avrebbe preparato il solito pranzo frugale a base di legumi, patate e pane raffermo, mentre nel pomeriggio c’era un’insolita pila di panni da lavare, acqua fresca da trasportare, figli da redarguire e un nuovo pasto da inventare.
A pochi passi dalla fontanina di San Giovanni Rosina fu fermata da un uomo vestito bene ma non troppo. Sembrava portasse i finimenti d’un cavallo, pensò, e la testa coperta da un cappello di pregevole fattura, con un’ampia tesa lievemente ondulata, che imprimeva all’estraneo un’aura di ambigua rispettabilità. Eppure Rosina non si lasciava intimidire da nessuno, caparbia e orgogliosa com’era.
«Signora bella, preferite Vittorio Emanuele o Franceschiello?» chiese l’uomo a bruciapelo con un bonario cipiglio da bafometto.
«Nesciùne de r’ ddù. Une tè la tégna e l’uoàrre tè la rógna!» rispose Rosina senza riflettere, con quell’inflessione acidula che contraddistingueva la sua voce nei momenti di frustrazione.[1]
L’estraneo, senza colpo ferire, aspettando forse una replica siffatta, sembrò per un attimo disinteressarsi di Rosina e, rivolto all’indietro, intimò a qualcun altro di arrestare la povera Rosina. Alle sue spalle vi erano infatti altri due signori – anch’essi ufficiali, evidentemente – appoggiati per metà al fonte da cui lei aveva attinto l’acqua qualche istante prima. Giunti in appena dieci secondi, Rosina si trovò in stato di fermo. E pensare che quando aveva riempito i secchi non s’era nemmeno accorta di presenze tanto ingombranti!
Rosina intuì presto la gravità della situazione e capì che quella sera non si sarebbe coricata al fianco del marito. Accompagnata a casa per raccogliere le poche cose utili per un soggiorno imprevisto e non voluto, ebbe appena il tempo di ordinare ai figli di obbedire alla nonna, e, non appena uscita con la sgradita scorta, vide rientrare il marito, anch’egli accompagnato da due ufficiali, decisamente più ieratici di quelli con cui aveva fatto conoscenza lei poco prima.
Prima del trasferimento a Campobasso, dove forse avrebbe rivisto il padre, Rosina fu trattenuta nelle umidissime carceri capracottesi sotto la collegiata, ai confini orientali dell’antico borgo della Terra Vecchia.
Fu in quel frangente che Rosina rammentò una storia che don Pasquale le aveva raccontato quand’era bambina. In quella stessa prigione, due secoli prima, furono incarcerati due preti protestanti, Ján Simonides e Tobiáš Masník, i quali, trasportati in nave da Venezia a Pescara, ebbero un giorno di riposo a Capracotta, dato che il convoglio si era recato in catene attraverso l’Appennino centrale per raggiungere definitivamente Napoli. Proprio a Capracotta erano riusciti a fuggire ma ben presto riacciuffati dalla polizia locale – un loro compagno, Juraj Láni, riuscì invece a darsi definitivamente alla macchia – e sbattuti per sei settimane nella stessa angusta galera dove ora stava Rosina. Ne uscirono grazie a un ricco commerciante tedesco che, sotto cauzione, letteralmente, li acquistò. Arrivarono da ministri di Dio, se ne andarono da beni di consumo.
Rosina giunse a una conclusione che per troppo tempo le era sfuggita, ovvero che i protestanti sono quelli che protestano, e quelli che protestano prima o poi finiscono in galera. I preti slovacchi, così come suo padre, ne erano la prova tangibile. Ed ora in galera c’era lei che, a ben vedere, aveva in qualche modo espresso un dissenso.
In realtà quella di Rosina la “Briganta” non fu una protesta reazionaria né tantomeno antiborbonica. Fu soltanto un improperio contro suo padre, contro Cannatella e contro quella vita agra che il potere impone ai più poveri e sprovveduti.
P.S.: La vicenda qui narrata a mo’ di raccontino storico è quella della mia quadrisavola Rosa Di Ianni, arrestata nel 1861 su ordine della Gran corte criminale di Molise con l’accusa di «spargere voci tendenziose». Nello stesso anno furono arrestati a Capracotta anche Giuseppe Sozio e Marianna Falconi (con la medesima accusa) mentre, nel 1862, furono fermati Luigi Mosesso per «aver inneggiato a Francesco II», Leopoldo Giuliano per «aver somministrato vettovaglie ad una banda di ventisei briganti, per la maggior parte spagnoli» e l’arciprete Agostino Bonanotte per «aver pronunciato parole di incitamento alla disobbedienza». Le fonti provengono dalla tradizione orale della mia famiglia nonché dalla Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, vol. I, Archivio centrale dello Stato, Roma, 1998, pp. 496-508.
Francesco Mendozzi
[1] L’ufficiale aveva chiesto a Rosina se preferisse il re Vittorio Emanuele II di Savoia o l’esule Francesco II delle Due Sicilie (chiamato con spregio Franceschiello). La sua risposta, in dialetto capracottese, era stata: «Nessuno dei due. Uno ha la tigna e l’altro la rogna!».