Non l’avreste definita “una bellezza”.
Sul volto squadrato un naso piuttosto pronunciato sormontava una bocca larga nella quale spiccavano due canini nell’arcata inferiore, unico residuo di una antica e robusta dentatura. Da un piccolo fibroma sulla guancia destra emergeva un ciuffetto di peli. La capigliatura appena ingrigita, raccolta in una crocchia sulla nuca, era ricoperta da un fazzolettone annodato sotto il mento; larghe spalle sormontavano una statura superiore alla norma per quegli anni. La schiena non era più eretta come una volta; gli acciacchi di una vita dura, di fatiche, di lunghe e diuturne camminate nei boschi a raccogliere funghi e frutti selvatici, da vendere poi in paese per pochi soldi, avevano piegato il busto e usurato le articolazioni.
Conosceva i sentieri della campagna e dei boschi circostanti come pochissimi; c’erano posti, dove raccoglieva quei doni della natura, noti a lei soltanto. Si spingeva spesso oltre i confini comunali fino all’abetaia di Pescopennataro, al territorio di Vastogirardi, di Agnone o giù verso la valle del Sangro, in prossimità di Colle Pecoraro, ove si fermava, ospite di Antonio Lalli (“pecoraro”) e di sua moglie Dina, prima di risalire a Capracotta.
Ha scritto di lei Domenico D’Andrea: « Alle prime avvisaglie della primavera non la trattenevi più. Si preparava e correva a fare un sopralluogo. Esplorato il terreno, cominciava le sortite quotidiane in cerca delle primizie che la campagna, ormai risorta, le poteva offrire. Si metteva un pezzo di pane, quando c’era, nel fazzolettone e se ne andava. […] Veniva prima il turno delle cicorie e delle casselle dal sapore forte e amarognolo, poi dei teneri boccarossi, dei tanni, dei cicorioni; più tardi c’erano le fragole, i lamponi, i funghi, specialmente i funghi. Conosceva tutte le fungaie degne di questo nome, e tutte le specialità. I preferiti erano i prataioli con il loro cappello bianco lucente e le lamelle marrone, che sapevano di sole, di aria, di prati verdi. Un giorno la incontravano sopra alla Piana del Monte, un altro giorno alle Matasse nere, un altro alla Valrapina in cerca di fiori di camomilla e di malvone».
Appoggiata ora ad un bastone, sorretto con la stessa dignità di uno scettro, la sua era ormai un’andatura appesantita, rallentata, a tratti ondeggiante e con frequenti soste nei tratti di strada in salita. La voce di una tonalità alta e vibrante, non particolarmente armoniosa, nei decenni passati, nei canti delle processioni lungo le vie del paese e durante le cerimonie in chiesa, sopravanzava di gran lunga quelle degli altri fedeli: «Ebbiva Maria e chia la creò» era il suo pezzo forte, il ritornello che più la esaltava.
Quella voce aveva assunto ultimamente un carattere bitonale, altalenante, quasi zoppicante come la sua andatura.
Si divertiva a volte, con quel suo vocione, a far paura a qualche bambino impertinente; non di rado una madre spazientita ne minacciava l’arrivo per ridurre alla ragione il figlioletto disubbidiente o recalcitrante; ma era solo un gioco poiché dietro quell’apparenza burbera, non certo paragonabile a quella della fatina azzurra, palpitava in realtà il cuore di un donna dall’animo buono, povera, ma fiera, laboriosa ed onesta.
Abitava in cima a via Carfagna, all’ombra del campanile e della chiesa nella quale per lunghi anni era risuonata prepotente la sua voce; attraverso un portoncino, situato sulla parete di un angusto passaggio ad arco che sfocia in una piazzetta, si accedeva in una misera e buia casetta con il soffitto in legno e le pareti annerite dal fumo. Ancora oggi la rientranza di quella strada è indicata come la “Rufa di Milione”.
Non aveva avuto una vita facile Mariangela Lucia De Renzis, a tutti nota come “Lucia di Milione”. Il padre Emilio, per via della possente corporatura era soprannominato “Milione” (Emilione); la madre Maria Rosa Ianiro (Marosa) era donna riservata, onesta e timorata di Dio. Aveva anche un fratello e tre sorelle, più piccoli: Adamo Fiore (Fiore il capraio); Irene, dai tratti somatici molto simili ai suoi, sposata con un figlio, rimasta vedova, vissuta poi con lei e deceduta nel 1983 ; Antonietta, morta in circostanze tragiche a 17 anni; Maria Loreta, la più piccola, morta per malattia all’età di 16 anni nel 19222.
Antonietta contribuiva con le sorelle al misero bilancio familiare lavando la biancheria per i carabinieri della locale caserma.
Accadde il 20 giugno 1920. Raccontano che la ragazza sia rimasta uccisa da un colpo partito dalla pistola del carabiniere andato a ritirare il pulito a casa delle donne.
L’Eco del Sannio del 3 luglio 1920 (ricevuto dall’Emeroteca Biblioteca di Agnone), sotto il titolo “Da Capracotta – Disgrazia” così riportò il fatto: «Il 14 giugno il carabiniere Vinicolo Pietro trovandosi nella casa di Ianiro Maria Rosa fu Giulio d’anni 56, ed in compagnia del carabiniere Di Martino Nicola, maneggiando la propria pistola che credeva scarica, casualmente partì l’unico colpo, ferendo nella regione sottonasale la giovinetta Di Rienzo Antonietta, di Emidio, di anni 17, figlia della Ianiro, che colpita poco dopo cessava di vivere. Da dichiarazioni rilasciate dai componenti la famiglia, il doloroso fatto devesi attribuire a pura e vera disgrazia»3.
Non mancarono comunque illazioni su un diverso andamento della vicenda.
Fiore il capraio invece, vedovo di Serlenga Giovannina, accompagnato dal suono del corno, passava ogni mattina per le vie del paese per prendere in consegna le capre e portarle al pascolo; verso sera le riaccompagnava percorrendo a ritroso la strada del mattino.
All’epoca ogni famiglia aveva una capra, soprattutto per le necessità dei bambini; la capra, le galline, il maiale macellato a dicembre e la legna ricavata dai tagli estivi dei boschi comunali, assicuravano la sopravvivenza durante il lungo e nevoso periodo invernale.
Erano gli anni della Seconda Guerra Mondiale; Capracotta era sotto l’occupazione tedesca. Una mattina Marosa travolta da un caprone bianco infuriato cadde a terra riportando contusioni varie e ferite alla testa. C’era bisogno di un disinfettante; chi altri se non i ben equipaggiati occupanti potevano far fronte alla necessità? Lucia non si perse d’animo, corse trafelata all’edificio scolastico (attuale sede della RA per anziani) ove erano acquartierati i tedeschi; per farsi comprendere dal soldato di guardia scandì bene le parole:« Matra mia, rotta capa, zorro bianco. Acool!». Superata mirabilmente “la barriera linguistica”, grazie anche alla mimica ed ai gesti, ottenne quanto richiesto.
Non bastarono però i disagi della guerra e la miseria; vento di burrasca tornò a soffiare sulla famiglia di Milione. Il 20 novembre 1943 un’altra disgrazia si abbatté sulla loro casa.
Giù alla contrada “Difensa”, dove Fiore aveva condotto quel giorno al pascolo le sue capre, lo scoppio di una mina, residuato bellico del secondo conflitto, lo uccise assieme al figlio Emilio di appena undici anni! Fiore aveva compiuto 44 anni.
La forte fibra e la tenacia di uno spirito battagliero, temprato dalle avversità di una vita affrontata a denti stretti giorno dopo giorno, furono scosse ma non abbattute. La forza della volontà ebbe il sopravvento e la ruota della vita riprese a girare pesante ed implacabile come sempre.
La campagna, i boschi e i prati furono la medicina consolatrice e tonificante per il suo spirito mentre il modesto ricavato dalla vendita porta a porta di frutti e verdure che la natura offriva, rappresentarono il frugale sostentamento per tirare avanti fino alla fine dei suoi giorni.
Lucia di Milione si è spenta all’età di 87 anni il 23 luglio 1977.
Vincenzino Di Nardo
Note
1 Foto dell’Archivio Giovanni Paglione
2 Nei registri dell’Anagrafe del Comune e della Parrocchia i componenti familiari sono a volte citati col cognome “Di Rienzo”.
3 La data dell’incidente, controllata sui Registri di morte del Comune e della Parrocchia è senza dubbio quella del 20 giugno 1920.