Un’immagine della Terra Vecchia di Capracotta dopo la distruzione da parte dell’esercito nazista in ritirata
I tedeschi non si limitarono solo a fare razzie; ad un certo momento cominciarono a catturare giovani per adibirli a lavori di bassa manovalanza e riecheggiò più spesso « Éssǝ rǝ tǝdischǝ!» quando pattuglie tedesche in perlustrazione si avvicinavano a posti strategici. Tutti, esclusi gli anziani, si nascosero per sfuggire alla cattura; alcuni compaesani però furono presi e portati con le truppe tedesche in ritirata oltre il Sangro. È ancora vivo il ricordo di una peripezia tragicomica occorsa ad uno di loro. Insieme ad altri due compaesani, oltre la Maiella, stava preparando una piazzola per piazzare un cannone quando un aereo inglese cominciò a sganciare bombe; per ripararsi dalle schegge si infilò velocemente sulla testa una tina di quelle con vita stretta. Cessato il pericolo tentò di sfilarsi quell’estemporaneo e ingombrante elmetto ma inutilmente; dopo innumerevoli vani tentativi uno dei capracottesi esclamò « Uagliù, sapètǝ ch’éma fà? Tagliamǝiǝ la còccia!» (Ragazzi, sapete che dobbiamo fare? Tagliamogli la testa!)
Nonostante la popolazione di Capracotta non avesse messo in atto nessun atto ostile, prima di abbandonare Capracotta cominciò l’operazione Terra Bruciata. Non ci sono parole per descrivere la preoccupazione, il dolore, lo sgomento di fronte a tanta ferocia. Tre giorni durò l’inferno; le case più robuste furono sbriciolate da candelotti di dinamite; quelle con i pavimenti di legno furono incendiate.
Poche case non furono abbattute e tra queste la casa in Piazza Stanislao Falconi, di proprietà oggi degli eredi di Michele Di Loreto. Romilde Della Croce in Di Loreto, moglie di Michele detto Pǝscatórǝ, e le sue figlie Maria e Bettina vivevano lì; i tedeschi decisero di incendiare la casa e già avevano provveduto a cospargere tutti i pavimenti con polvere di zolfo, piazzando anche su tavoli e scrivanie valigette esplosive quando, giunti alla camera da letto, si accorsero che Romilde e le due figlie erano lì. Gli artificieri allertarono l’ufficiale che dirigeva le operazioni; si trovò di fronte ad una donna risoluta a morire nella sua casa ed inutilmente il gruppetto di militari cercò di convincerla. Alla fine Romilde si rivolse all’interprete dicendogli di riferire al comandante che «se ha una nonna e una madre nelle stesse mie condizioni nel suo paese, potrà capire perché voglio morire nella mia casa». L’ufficiale restò un momento sconcertato, poi fece rimuovere le valigette esplosive e andò via. Era rimasto tutto lo zolfo sparso nelle stanze e nella scalinata e per paura di innescare l’incendio Romilde e le figlie rimasero lì in quella camera. Dopo qualche giorno il maresciallo dei carabinieri Vincenzo De Mura che corteggiava Maria seppe dell’accaduto e si precipitò a bonificare la casa. Anche quel soccorso inaspettato contribuì a consolidare il legame affettivo con Maria e alla fine dopo qualche anno convolarono a nozze. Capracotta bruciò per giorni e i bagliori delle fiamme furono osservati da mezzo Molise e da parte dell’Abruzzo aquilano.
Nello stesso giorno della partenza dei tedeschi, gli abitanti pur con la morte nell’animo cominciarono a valutare il da farsi. Alla Fonte Giù, ultimo gruppo di case distrutte verso il Verrino, da giorni si erano già preparati alla peggiore delle ipotesi e prima dell’oscurità misero su un pagliaio da carbonai. In quel ricovero di fortuna si riunirono le due numerose famiglie di Domenico Di Nucci (Carmǝnónǝ) e di Agostino Di Lullo (Pacigliǝ). Purtroppo il ricovero non fu efficiente perché per le pessime condizioni atmosferiche ci fu un’abbondante rigurgito di acqua dal terreno. Le due famiglie dovettero cambiare sistemazione e si trasferirono il giorno dopo nella stalla di Giovanni (Pǝgniata) e Giuseppe Di Lullo (Papèppǝ), figli di Agostino che era nel secondo gruppo della Fonte Giù; pur disastrata, la stalla, locale sottostante, era praticamente intatto. Poi le donne delle due famiglie si rifugiarono nel cimitero. Tanti altri capracottesi si rifugiarono nella Chiesa o in quelle poche case rimaste in piedi.
Con l’arrivo degli inglesi quasi tutti pensarono che le situazioni si sarebbero aggiustate; erano nostri alleati e non c’era spazio per le preoccupazioni. Catturarono per strada il Podestà Filiberto Castiglione e senza dargli nemmeno la possibilità di salutare i propri familiari, fu internato a Padula. La sua centenaria farmacia fu completamente distrutta; tutto fu gettato dagli inglesi nel dirupo. Vi fu anche una sottoscrizione cittadina diretta al comando inglese in cui si solidarizzava con Filiberto, ma quest’iniziativa provocò l’effetto contrario e inasprì gli animi degli alleati. A quanto mi risulta fu l’unico fascista della zona che pagò per tutti; anzi soggiornò a Padula più di tanti gerarchi fascisti e gli alti papaveri si riciclarono immediatamente. Nel dopoguerra ci si ritrovò con la stessa classe dirigente e gattopardescamente cambiò tutto per non cambiare nulla. Dopo che ogni famiglia aveva cercato di arrangiarsi nel migliore dei modi per superare l’imminente inverno, gli alleati decisero di effettuare uno sfollamento coatto. Quasi 4.000 sfollati! Molti furono presi con la forza dagli inglesi e trasferiti con camion in Puglia e li abbandonati senza sussistenza; tanti furono accolti nelle masserie dell’agro capracottese; tanti si diressero verso Agnone; tutti, eccetto poche decine di capracottesi autorizzati a restare a Capracotta, si ritrovarono a superare un’altra grave emergenza e non sempre dove cercarono di svernare ebbero oltre ad un tetto sulla testa la possibilità di alimentarsi a sufficienza. I carbonai capracottesi portarono nei boschi pugliesi anche le loro famiglie e alla men peggio sopravvissero.
Altra tragedia, altre preoccupazioni, altri dolori. Un intero paese, seppure disastrato fu lasciato incustodito; quasi tutti prima di sfollare cercarono di nascondere quel poco che era rimasto nei modi più disparati.
Mia madre portò tutto il suo corredo nella casa di sua sorella Michelina e la camera da letto nella stalla di sua Zia Antonina Comegna. A primavera da Casalnuovo dove tutta la famiglia trascorse l’invernata a produrre carboni, tornò a piedi lungo i tratturi insieme ai cognati Mario e Giovanni per rendersi conto della situazione; nella casa di sua sorella Michelina gli inglesi avevano impiantato una latrina facendo un buco nel pavimento di legno della cucina; la stalla sottostante era completamente colma di escrementi e il suo prezioso corredo usato come carta igienica! Quei pochi mobili che aveva lasciato dalla zia erano ancora lì. Quasi tutti i capracottesi tornarono verso la metà di giugno; i mobili depositati nella stalla di sua zia però erano spariti: altro motivo di rabbia e di sconforto. E cominciarono a circolare voci di atti di sciacallaggi.
Restarono disseminati in paese e nelle campagne tanti residuati bellici e per i ragazzi e i giovani iniziò un pericoloso divertimento; la polvere da sparo veniva recuperata dai proiettili senza pensare ai rischi che si correvano. Chi si distinse in questo nuovo gioco fu Renato D’Andrea e la sua combriccola (Sebastiano Sammarone, Rubens Del Castello, Dino Pettinicchio, Natalino Comegna,Gabriele Giuliano, Carmine Paglione ‘Giuvǝddì’ e Antonio Di Nardo). Accumularono un’ingente quantità di polvere da sparo al punto che cominciarono a divertirsi creando un cannoncino. Pensarono anche di accendere fuochi pirotecnici nella festa del Corpus Domini del 1945, con tanti mortai zeppi di polvere da sparo rivolti verso il dirupo; all’uscita del Sacramento dalla Chiesa iniziò lo spettacolo che andò bene fino a quando i tappi di legno che chiudevano i bossoli cominciarono a cadere sulla folla. Poi decisero di disfarsi di tutta la polvere che avevano e una sera riempirono un fosso e misero fuoco; un’enorme fiammata multicolore illuminò il cielo.
Le famiglie di tanti capracottesi si ritrovarono senza possedere praticamente nulla. Iniziò la ricostruzione basata all’inizio soprattutto sullo scambio gratuito di giornate lavorative. A prezzo di enormi sacrifici quasi tutti i capracottesi riuscirono a ricreare in quasi dieci anni quanto distrutto. Ad una stima molto approssimativa la ricostruzione costò allora l’equivalente odierno di diversi miliardi di euro. Quando tutto il paese tornò a vivere iniziò la diaspora. Per avere decenti condizioni di vita tantissimi capracottesi lasciarono, anche se a malincuore, il proprio amato paese. Dapprima verso le Americhe, poi in Francia, Belgio, Germania e in altre regioni italiane; il calo demografico ha pesantemente falcidiato la popolazione residente e non ancora si vede la luce alla fine del tunnel. Nessuno è in grado oggi di capire come sarebbero andate le cose se Capracotta non fosse diventata territorio di guerra, se non ci fossero stati la distruzione e lo sfollamento. Certo è che gli effetti di quella disastrosa guerra si fanno sentire ancora oggi.
Domenico Di Nucci
Articoli correlati: