Il mitico Clipper ai giorni nostri
Fu il giorno 8 gennaio dell’anno 1954 nel quale accadde la vicenda che narro. Il testo è stato redatto con le testimonianze dei protagonisti, i fratelli Amelio, Pietro e Ottavio Di Nucci (de re scialp), integrate dalla cronaca della giornata scritta dal dottor Durante Antonarelli, ufficiale sanitario di Capracotta, pubblicata dal giornale Momento Sera del 21.01.1954. In fine è stata aggiunta l’intervista alle signore Giovanna Amorosi ed Amalia Musenga, moglie e figlia del dottor Angiolino Musenga, il farmacista che diede il primo soccorso ad Ottavio sul Clipper.
Ottavio e il fratello maggiore Pietro furono chiamati dal Comune, insieme ad altri uomini, in appoggio allo spazzaneve in una uscita giornaliera verso Staffoli. Bisognava aprire la strada alla corriera. Nevicava con vento forte dal giorno precedente e c’era già un buon accumulo di neve. Fu l’8 gennaio 1954, un’avventura particolarmente difficile e con gravi conseguenze per la salute di Mario Ottavio Di Nucci.
La madre Letta al mattino “predecava” con Pietro. Il fratello Amelio, il maggiore dei tre, che era ancora nel letto sentiva, giù dal basso, il baccano e invitò la moglie Annina a scendere per vedere cosa stava succedendo. Letta non voleva che i figli Pietro (27 anni) e Ottavio (18 anni compiuti da meno di un mese) andassero con lo spazzaneve. Brontolava in particolare con Pietro, il più grande dei due, che voleva portare con sé anche il giovane Ottavio. Troppo giovane. La mamma temeva per lui che avrebbe dovuto affrontare un’altra giornata di fatica nella bufera come quella del giorno precedente nella quale erano stati dieci ore a spalare neve sulla strada per Staffoli. Letta aveva cattivi presentimenti.
Ottavio comunque giovane, forte e ben allenato, era sicuro di sé ed era desideroso di lavorare. Pietro senza discutere troppo rispose alla madre: «allora tiettere sotto a la unnella figlete». Ottavio, non si sentiva “piccolo” ed anche un po’ “seccato” per l’eccessiva preoccupazione della madre, partì con il fratello. I due fratelli presero lo zaino con la colazione e si unirono al gruppo di circa dieci uomini[1] che seguivano Clipper. A sera Amelio, tornato a casa dalla Società all’ora della cena, si accostò alla padella che era sul fuoco nella quale era pronto uno spezzatino, vi inzuppò un pezzo di pane e mandò giù il boccone. La mamma lo rimproverò perché per cenare bisognava aspettare gli altri due fratelli, Pietro e Ottavio, che erano con lo spazzaneve, ed erano lì a poco per rientrare. Lo spazzaneve normalmente rientrava con la corriera intorno alle ore venti. Attesero. I due fratelli non arrivavano. Erano in forte ritardo rispetto all’orario solito del rientro. La bufera continuava. La preoccupazione cresceva. Amelio dopo aver atteso ancora un po’ e non vedendo arrivare i fratelli uscì per cercare di capire il perché del ritardo.
Quando fu sulla strada sentì il suono delle campane che chiamavano a raccolta i capracottesi, c’era bisogno di aiuto. Così si usava in paese, in caso di necessità tutti gli uomini validi, chiamati a raccolta dalle campane, si mobilitavano per portare aiuto. Amelio andò in piazza, dove trovò altra gente che s’interrogava sull’accaduto. Lo spazzaneve e la corriera non rientravano. Avevano troppo ritardo rispetto al solito. Infatti, dall’ultimo contatto avuto per telefono da Staffoli tra gli autisti dello spazzaneve e il comune erano trascorse circa 3 ore e non ancora si vedevano giungere. Qualcuno opportunamente aveva pensato bene di suonare le campane. Vedremo in seguito cosa era accaduto nelle ore precedenti e chi aveva fatto suonare le campane.
Comunque bisognava andare incontro allo spazzaneve. Senza un attimo di esitazione Amelio decise di partire. A lui, che aveva 29 anni, la forza non gli mancava, e poi due suoi fratelli erano con lo spazzaneve dal mattino. Arrivato a S. Antonio chiamò il cugino Pasquale Sozio (“Cicmuort”): «ema ii ca è armaste bluccate re spazzaneve». Uscì e partirono. Per strada c’era altra gente che andava. Camminarono circa un’ora, o forse più. Sulla strada c’era un metro di neve, e continuava a nevicare. Raggiunsero lo spazzaneve che stava fermo in zona “Iaccio della Vorraina”, circa 2,5 chilometri dal paese. Annina commenta: «quella curva maledetta dove morì anche quel soldato nel 1943».[2]
Erano arrivati diversi uomini tra cui i fratelli “Zazone”, Enrico e Antonio Monaco. Amelio subito cercò i suoi fratelli, e il pensiero andò soprattutto al più giovane che la mamma gli aveva tanto raccomandato. Chiamò ripetutamente: «Ottavio, Ottavio, Ottavio». Ottavio non rispondeva, stava male, era crollato. Stava sul Clipper e Pietro era vicino a lui: lo assisteva il farmacista che veniva da Campobasso, e prestava servizio a Capracotta presso la farmacia Castiglione. Questi aveva compreso la gravità del caso, Ottavio, infatti, era privo di sensi. Pietro racconta che erano sfiniti, ma quando videro arrivare questi uomini tirarono un sospiro di sollievo, ripresero coraggio e tornò in loro la fiducia. La fiducia fece tirar fuori le residue forze necessarie per raggiungere il paese. La corriera era bloccata più in là e i passeggeri si erano trasferiti tutti sullo spazzaneve “a cassone”, ma nemmeno il Clipper riusciva ad andare avanti. Bisognava partire al più presto, tornare a casa ad ogni costo e cercare un medico per dare aiuto a Ottavio. Così fu necessario abbandonare lo spazzaneve e partire a piedi.
Amelio cercò di caricarsi Ottavio sulle spalle, ma Enrico, uomo generoso alto e forte, con fermezza lo scostò spingendolo col dorso della mano sull’avambraccio dicendogli affettuosamente: «levate da esse!» e si caricò lui sulle spalle Ottavio ormai privo di sensi «come nu suacche de patane». Aiutava Enrico il fratello Antonio detto “Panaccio”, basso e robusto, ma altrettanto forte. Si formò un lungo corteo, soccorritori, autisti, passeggeri e occupanti lo spazzaneve, circa ottanta persone, c’erano anche due donne[3]. Avanti a tutti c’erano Enrico ed Antonio Monaco con Ottavio. Ogni tanto si davano il cambio. Pietro racconta: «.. nu de re spazzaneve z’eravame allentate tutte quande. Ze camenieva, pure chele donne, chieane chieane, ze davame la mieane». A parere di Pietro quelle donne che erano state per tutta la durata del viaggio su Clipper, reagirono bene, non crearono grossi problemi, non erano stanche come loro, gli operai. Pietro confessa: «eravamo sfiniti, anche io cominciavo a straniarmi. Pe arrevie alla Madonna ce mettemme du o tre ore, caccia e ficca, la bufera che faceva, nen ze capeva niende! Mancava re fiate!» Si davano coraggio a vicenda: «Forza forza forza!» Parve un’eternità ma, finalmente dopo tanta fatica, arrivarono alla Madonnina, intorno alle ore due, dove si rifugiarono.
Amelio e il cugino Pasquale andarono in paese e si recarono direttamente a casa del dottor Luigi Carnevale, che abitava dietro la torre dell’orologio. Per raggiungere il portone del dottore si “tuffarono nella reglia di neve” che si era formata davanti casa. Bussarono decisamente. Il medico si affacciò, capì immediatamente la gravità del caso, e celermente si vestì. Da giovane sportivo qual era calzò gli sci e partì per la Madonnina dove arrivò in breve tempo. Prestò il primo soccorso ad Ottavio. Somministrò qualche farmaco. Ottavio aveva bisogno di un letto caldo. Lo condussero presso l’abitazione della zia Elvira, sorella di Letta la madre, che abitava all’entrata del paese (presso le case UNRRA – l’attuale n. 110). Il dottor Luigino vigilò per tutta la notte, fino alle nove-dieci del giorno dopo, ora in cui Ottavio riprese conoscenza. Comunque c’era bisogno di ricovero ospedaliero, ma con tutte le strade bloccate Ottavio dovette rimanere per altri tre o quattro giorni in questa casa.
Amelio e Pasquale avevano seguito, a piedi, il medico verso la Madonnina. Quando arrivarono alle porte del paese, seppero che Ottavio era stato portato a casa della Zia, ed era assistito dal Medico. A questo punto tornarono a casa per dare notizie alla mamma alla quale non dissero la verità. Le dissero che Pietro e Ottavio erano rientrati in paese e che stavano bene. Letta, però, considerata l’ora tarda, e non vedendo ancora gli altri due figli percepiva che era successo qualcosa di veramente grave; era sempre più preoccupata e rivolgendosi al nipote Pasquale ripetutamente chiedeva: «Ottavio addò sta? Ottavio addò sta?». Pasquale rispondeva: «Ottavio sta buone, sta buone!». Letta si rivolgeva al nipote e non al figlio perché sospettava che Amelio, per non addolorarla, non le raccontava la verità. Il nipote invece, secondo lei, non le poteva mentire. Invece anche Pasquale le nascondeva la verità. Letta però risoluta disse: «allora ietere a pigliè e purtatere ecche». I due così incalzati dalla mamma non potettero fare altro, partirono, tornarono giù. Riscontrarono che Ottavio era vigilato dal medico e si stava riprendendo, tornarono a casa. Questa volta però dovettero dire tutto a Letta la quale volle assolutamente vedere il figlio. Non ci fu verso di farla desistere. Così portarono al capezzale di Ottavio la mamma e fu un’altra avventura nell’avventura perché con quel tempaccio fu una grossa fatica per la mamma raggiungere la casa della sorella Elvira dove si trovava Ottavio. Le parole di Amelio: «pe purtarla loche abballe, pe sotte alla vianova, che la bufera, tirieva la voria, chieane chieane sfunnamme e arrevieamme, erane le tre o le quattre».
Anche Pietro stette a casa della zia vicino al fratello Ottavio, oltre al medico, anche Vincenzo Di Nucci,“Sarturella” e il cugino Leonardo Sanità, mentre gli operai del Clipper constatato che Ottavio era assistito dal medico decisero di tornare a casa. Il paese era al buio. Con la bufera di quei giorni la corrente elettrica era mancata più volte: in quegli anni capitava spesso. Le linee aeree col vento e col gelo facilmente andavano in corto o si spezzavano. E nonostante il bravo elettricista Benedetto Amorosi fosse dinamico e pronto a intervenire, non sempre riusciva a ripristinare subito la rete elettrica. Nel caso si erano rotti i fili, e ciò era molto probabile, per ripararli bisognava, l’indomani, ricercare la rottura percorrendo tutta la linea a piedi con gli sci o con le racchette. Si può ben comprendere come il lavoro non fosse né semplice né celere. Era probabile che si rimanesse al buio per tutta la notte e parte del giorno successivo. Pietro ricorda che fino alla piazza andò in compagnia di Vincenzo Di Nucci e Leonardo Sanità. E sentiamo le sue stesse parole: «… la cosa che mi è rimasta impressa che da abballe a le case dell’UNRRA, Capracotta era tutta al buio, è una cosa indimenticabile. Fina alla torre dell’orologio sono andato in compagnia di quelli che abitavano lì, eravamo tutti allentati … ». Lasciati gli amici, sfinito e con una profonda tristezza nel cuore, si avviò verso casa e imboccò Via Roma, e con le lacrime agli occhi racconta: «Io sono dovuto andare da solo sopra a San Giovanni, sempre al buio. Però quando sono arrivato sotto alle carceri, davanti alla casa di Cristina de ru carceriere, Capracotta ad ogni finestra teneva na cannela o du appeccieta, maggiormente tutta via San Giovanni dietro ogni finestra ce stevane du de lumini accesi. A casa mia non c’era nessuno, povera mamma stava giù assieme ad Ottavio». Perché quei lumi? Prima il suono delle campane aveva trasmesso il messaggio della difficoltà, di seguito si era diffusa la notizia che era stato necessario l’intervento del medico e che Ottavio stava male. Anche se era notte inoltrata le persone nelle case erano vigili e in attesa di notizie. Tutti dall’inizio di via Roma e per tutta via San Giovanni avevano acceso dei ceri dietro i vetri per facilitare il rientro degli uomini nella bufera. Forse quei lumi dietro i vetri invocavano l’aiuto del Cielo per quegli uomini nella neve e soprattutto per Ottavio che era tra la vita e la morte. Ed è questo significato che Pietro ha dato a quei lumi e che ricorda ancora con commozione a cinquantatre anni di distanza.
E perché tutto quel ritardo? Qual era stata la giornata di Clipper? Ripartiamo dal mattino e ascoltiamo il racconto di Pietro e Ottavio. Erano partiti da Capracotta intorno alle ore otto-nove. Il tempo non era pessimo ma non era nemmeno tanto rassicurante. «Minacciava un po’». Dovevano sbloccare la strada per Staffoli. La corriera era partita prima, come al solito alle ore cinque del mattino. Sì perché il giorno prima la strada era stata liberata dalla neve. Al loro passaggio, circa quattro ore dopo la corriera, la strada era di nuovo ricolma di neve. Per riaprirla impiegarono molto tempo, ma comunque arrivarono giù a Staffoli nella tarda mattina. A Staffoli a mezzogiorno consumarono la colazione sullo spazzaneve e bevvero anche un goccio di vino. Infatti, Pietro dice: «ci portavamo anche la buttigliuccia di vino, magari che era poco». E stettero in attesa dell’arrivo di qualche corriera da Campobasso o da Napoli.
Alle prime ore del pomeriggio dal comune di Capracotta, telefonicamente, agli autisti arrivò l’ordine di andare a sbloccare la strada di Vastogirardi. Il Clipper, che era autorizzato a viaggiare solo sulle strade del comune di Capracotta, non poteva sottrarsi ad una chiamata di soccorso. A Vastogirardi c’era una paziente che doveva raggiungere l’ospedale. Doveva essere scortata a Staffoli. Partirono. Anche sulla strada per Vastogirardi c’era tanta neve, per questo tornarono a Staffoli molto tardi, con il buio: erano le ore tra le diciotto e le diciannove. Intanto le corriere da Campobasso e Napoli erano giunte, erano scesi dei passeggeri che erano saliti sulla corriera per Capracotta.
Prima di mettersi in moto per rientrare a Capracotta gli autisti dello spazzaneve pensarono bene di sapere com’era il tempo su al paese, e telefonarono al sindaco (Nicola Ianiro). Ottavio riferisce le parole del sindaco: «a Capracotta nevica senza bufera, putete azzardà». «Azzardàaa!!!» Esclama adesso Ottavio. Il suggerimento del sindaco fa sorgere dubbi sulla percorribilità della strada, e gli sviluppi della nottata ne diedero conferma. Continua Ottavio: «da Monteforte cominciarono le nostre sofferenze e maledicemmo più volte chi ci aveva detto di partire. Da quel punto fino all’arresto di Jaccio della Vorraina le ho contate le volte che siamo scesi dallo spazzaneve, ben sette volte». E Pietro racconta cosa accadeva via facendo nelle soste. Quando Clipper si trovava di fronte ad accumuli di tre, quattro o cinque metri di neve si fermava. Gli operai scendevano e con le pale riducevano i cumuli di neve, per agevolare il passaggio del Clipper. Superato il famigerato Monteforte entrarono nel bosco di Valle Sorda ed ebbero un po’ di tregua.
E’ risaputo che il bosco smorza il vento, la tormenta non si avverte, l’innevamento è uniforme, lo spazzaneve scivola via senza fatica e senza intoppi. Il tratto si percorre tranquillamente. Appena usciti dal bosco, allo scoperto, ricominciarono le fatiche. Ogni tanto Clipper si fermava e gli operai dovevano scendere al richiamo degli autisti: «forza, forza, forza!» Ottavio racconta che sullo spazzaneve si stava abbastanza caldi, c’era una stufetta a gas, si scherzava anche, però non facevano in tempo a scrollarsi la neve dai cappotti che erano nuovamente chiamati a scendere. I loro indumenti rimanevano bagnati e sempre più pesanti. Il tempo era veramente proibitivo. La lunga giornata nella neve e le ripetute operazioni avevano sfiancato tutti. Tra l’altro Ottavio, essendo il più giovane e agile, era chiamato spesso dall’autista ad andare sul muso del mezzo e rimuovere la neve che, nei continui urti, si depositava sul cofano motore e sul parabrezza[4]. Gli autisti tentavano di sfondare ma lo spazzaneve, riferisce Pietro, non ce la faceva «ze mbruciava». Questa operazione, come è immaginabile nella bufera, e nel continuo “tuzzare” di Clipper, doveva essere ripetuta più volte. Pietro dice: «già da prima di Jaccio della Vorraina eravamo tutti sfiniti, non ce la facevamo più. E poveri autisti a turno scendevano anche loro. Scendevano anche i guardaboschi».
Ottavio ricorda chiaramente l’ultima sua discesa dallo spazzaneve. Clipper si fermò in quel punto molto esposto al vento. La strada era sotto il crinale del terreno e l’accumulo era massimo. Racconta: «… la carreggiata della strada era appena riconoscibile dalle creste di neve accumulata sui bordi il giorno prima. Le pareti erano alte almeno cinque metri. Scendemmo io e due cantonieri. Io avanti, loro dietro. Mi spinsi più in là, sette-otto metri. Ad un certo punto scivolai in basso, in un buco della carreggiata. Continuai a spalare, gli altri due non si vedevano più. Sentivo il sudore addosso e il venir meno delle forze, un certo torpore mi assaliva, fino a che non vidi né sentii più niente. Da questo momento non ricordo più nulla. I fratelli e gli altri mi hanno raccontato dopo il resto. I Cantonieri risaliti su Clipper non vedendomi dietro di loro diedero l’allarme e mi vennero a cercare. Mi dissero che ero già quasi completamente ricoperto di neve. Se avessero tardato ancora un po’ adesso non sarei qui a raccontare».
Ottavio fu portato su Clipper e il primo soccorso glie lo prestò il farmacista (Angelino Musenga)[5] che a Staffoli era salito sulla corriera. Con lui ovviamente c’era il fratello Pietro che racconta: «gli altri alla fine non facevano scendere nemmeno me per stare vicino a mio fratello. Però oddio vedendolo così mi ero demoralizzato. Ottavio poveraccio non capiva più niente. Era morto, era morto proprio. Però dovevamo procedere ad ogni costo per rientrare, tentammo di tutto, basta! Ci dovemmo arrendere». Bisognava che qualcuno raggiungesse il paese, ad ogni costo, per chiedere soccorso. Pietro racconta che una staffetta, composta da “Cinzitte de Sarturella”, e altri due che non ricorda chi fossero, partì verso il paese per chiedere aiuto. Questo gruppetto passò per la strada più breve, la “Crocecinale “ e non incontrò il gruppo dei sei o quattro soccorritori partiti nel frattempo dal paese e che raggiunsero Clipper attraverso la strada principale. I fratelli Pietro, Amelio e Ottavio non ricordano chi fossero i sei o quattro uomini del primo soccorso. Ce li indica il dottor Durante Antonarelli nella sua cronaca della giornata prodotta il 21.01.1954, e sono: Giuseppe Jacovone, Raffaele Conti, Antonio De Renzis, Giuseppe Potena, Enrico De Renzis e Nino Conti. Il seguito ormai lo conosciamo.
Cosa aveva riportato Ottavio? Sembra un blocco intestinale e delle vie urinarie per raffreddamento. Appena le strade furono liberate dalla neve, tre o quattro giorni dopo, Ottavio fu trasportato in ospedale a Napoli dove rimase in cura per quattro mesi. Pietro racconta che Ottavio ripeteva di aver avuta salva la vita grazie a quei due fratelli, Enrico ed Antonio Monaco. Finché sono stati in vita (ma specialmente ad Enrico), quando li incontrava, «buongiorno buongiorno!» diceva «doppio buongiorno, era proprio una cosa commovente». Da quella esperienza Ottavio rimase fortemente segnato. Lui era apprendista muratore, bravo e ben avviato. Il suo maestro era Ottorino Del Castello. Ottavio avrebbe avuto sicuramente un bell’avvenire, e racconta che il suo maestro per quella giornata lo aveva invitato a fare dei lavoretti all’interno della casa di Don Tommaso Conti, in Piazza Granturco. Lui preferì andare a spalare neve. Mastro Ottorino a seguito della sua sventura gli confessò di aver pianto per lui. Sì proprio Mastro Ottorino, che non era poi così incline ai sentimentalismi. E più volte gli ha rinfacciato quella scelta sventurata nella quale aveva messo a repentaglio la sua vita procurando grandi preoccupazioni alla mamma ed ai fratelli. A guarigione avvenuta si sentiva fragile al punto da ritenere di non poter più svolgere il lavoro di muratore, che tanto gli piaceva e tanto aveva imparato. A cinque anni dalla disavventura dovette ricominciare da capo, imparare un altro mestiere “più tutelato”: il sarto. Ritenuto sempre malato ci vollero 10 anni per recuperare completamente.
Ma perché Pietro e Ottavio avevano deciso di andare a spalare neve?
Pietro dice: «L’estate Ottavio e io avevamo lavorato e a casa un pezzo di pane c’era. Non è che ce la passavamo tanto male e dovevamo andare per forza con lo spazzaneve. Mamma non è che proprio non voleva, però siccome era responsabile di una famiglia, perché lasciata dal marito da dieci anni, doveva badare ai quattro figli minorenni, di cui Michelino, che aveva deciso di studiare presso il convitto di Trivento, lei si sentiva impegnata per la retta da pagare. Sai ogni due o tre mesi si doveva portare quella lira lì. Non che avevamo bisogno proprio di quella lira della neve, però dovevamo racimolà».
Per spalare la neve al seguito di Clipper dal comune chiamavano giorno per giorno gli operai. La regola voleva che ci fosse solo un elemento per famiglia. Si sa che in quegli anni un po’ tutti avevano necessità di lavorare. E la paga anche se misera, faceva comodo a tutti. Pietro non ricorda bene l’importo e dice: «mi sembra cinquanta lire[6], più o meno, erano una stupidaggine». Per andare noi due fratelli ci raccomandava il guardaboschi Carmine Evangelista. Nella chiamata interveniva anche l’ufficio di collocamento, ma tutto era diretto dal comune. La chiamata era per giornata e, gli operai non erano assunti. Gli spalatori non avevano né assicurazione né versamento di contributi previdenziali. Pietro precisa: «c’era un’assicurazione volante e chi si faceva male lo infilavano dentro. Non era che ci assicuravano per dieci giorni. Se il tempo era buono e non c’era bisogno di operai uscivano solo gli autisti con qualche cantoniere».
E’ per questo che Ottavio cominciò una lunga ed estenuante lotta con la burocrazia per ottenere assistenza medica e riconoscimento dell’infortunio.
Pietro e Ottavio vivono a Roma, Amelio è deceduto a Isernia il 2011.
Nelle pagine seguenti riportiamo un ampio brano della cronaca del dottor Durante Antonarelli, riportata dal giornale Momento Sera del 21.01.1954, che ci aiuta a comprendere i momenti più difficili vissuti da quegli uomini. Ci rivela l’organizzazione dei soccorsi in paese e i nomi di alcuni soccorritori, e fa luce su alcuni aspetti che nel ricordo dei tre fratelli non sono molto chiari, comprensibilmente per lo stress, per la tensione vissuta nel dramma di Ottavio e, da ultimo, per i tanti anni ormai trascorsi.
Ore drammatiche e gesta eroiche a Capracotta nella tormenta
Durante Antonarelli
…. Quello che è successo nella notte dall’otto al nove, merita l’onore della cronaca dettagliata. E’caduta più neve in quella notte di quanto non ne sia caduta dal Natale all’otto gennaio. […] Giù a Staffoli nulla si sapeva di questa ira di Dio. Pertanto verso le cinque pomeridiane[7] del giorno otto da Staffoli partiva per Capracotta il nostro potentissimo spartineve con quindici spalatori che aprivano così la strada alla corriera che seguiva da vicino lo spartineve. Nella corriera c’erano circa dieci passeggeri: fra costoro due donne e due malati che tornavano da Isernia. Tanto andavano bene fino a Valle Sorda ove lo spartineve veniva improvvisamente arrestato dalla tremenda bufera e da un imponente banco di neve. I tentativi di quel potente mostro furono condotti al massimo dal buon Leo. E gli urti si succedevano agli urti. E ogni volta i lamenti del grosso motore toccavano gli spasmi della disperata agonia. Macchè … le ali non riuscivano a tagliare e a scansare quell’immenso banco di neve alto più di sette metri. Lo scuoteva, lo faceva un po’ tremare ma né lo tagliava né lo scansava. Durarono una buona mezz’ora questi tentativi dell’indignato motore secondato dalla volontà di un uomo pure indignato. Ma a nulla valsero. Scesero allora i quindici spalatori e scomparvero nella notte, nella tormenta e nella neve profonda. Attingendo la forza fisica e quella dello spirito a risposte e a insospettate energie, con lavoro paziente, continuo, inaudito riuscirono finalmente in tre ore a vincere, in quelle disagiatissime condizioni ambientali, quell’imponente banco di neve. Si decise di abbandonare sul posto la corriera che era di grave ostacolo allo spartineve. E ce ne volle per convincere Nicola, l’autista, della necessità di questa decisione. Nicola Jacovone, non voleva lasciare lì, a Valle Sorda, il pullman affidato a lui. Ma necessità impose l’abbandono della corriera e i viaggiatori furono invitati a sistemarsi nello spartineve che riprese la via di Capracotta. Il trasbordo di quella gente dalla corriera allo spartineve fu emozionante. L’opera degli spalatori intanto continuava ad essere preziosa: ogni tanto questi eroici uomini, inzuppati fino alle ossa e tormentati dal freddo pungente, dovevano scendere e dare il loro aiuto con le pale. Sembrava che tutto dovesse andare liscio sino al paese, quando a due chilometri da Capracotta,[8] contemporaneamente ai lamenti di un giovane spalatore colto da improvviso malore, lo spartineve si arrestava in una località molto esposta di fronte a un altro banco di neve più imponente di quello precedente. Il giovane colpito da malore[9] veniva comunque soccorso dal farmacista Angiolino Musenga che faceva ritorno in sede dalla lunga vacanza, pur egli sorpreso da tanta ira di Dio. Altri inutili tentativi dello spartineve per rimuovere l’ostacolo; nulla da fare. Ancora gli esausti spalatori: non ce l’avrebbero fatta; non potevano farcela: non ce l’hanno fatta. Tanto era l’ira della natura, tanto erano sfiniti. Eppure Capracotta era lì, a meno di due chilometri. Tre volenterosi decisero allora di andare a piedi in paese in cerca di soccorso. Preoccupavano più d’ogni altro gli ammalati e le donne. Stanno per avviarsi quando una luce incostante che sempre più si avvicina li arresta. Sono sei coraggiosi che vengono da Capracotta in loro aiuto. Si sono mossi punti da grave preoccupazione. Sono Giuseppe Jacovone, il maresciallo Raffaele Conti, Antonio De Renzis, Giuseppe Potena, figlio di Colomba. Da oltre un’ora costoro si erano mossi da Capracotta e la strada in quella tormenta infernale se l’erano fatta coi denti e coi petti. Erano intanto arrivati e l’incontro nella notte tormentata fu emozionante. Si diede il primo soccorso: cognac e caffè. E una relativa calma tornò fra gli esausti e gli assiderati. S’erano creati per tutta la notte due punti di riferimento e appoggio, la Madonnina e il Circolo Sannitico, col fuoco sempre acceso e con qualche cordiale pronto. I sei tornano subito indietro e nella notte drammatica si udirono i tristi rintocchi di tutte le nostre campane. A questi sinistri rintocchi una quarantina di uomini robusti lasciarono il caldo letto e corsero in aiuto dei bisognosi. Si organizzò una solida colonna che mosse verso lo spartineve. Della colonna facevano parte, oltre a Enrico Monaco, Enrico De Renzis, Antonio Monaco, Nino Conti e altri; anche uomini responsabili della nostra pubblica Amministrazione, quali Sebastiano Ianiro e Achille Conti. I più bisognosi di assistenza vennero condotti a spalla nel paese. All’alba mentre fuori ancora violenta imperversa la bufera, torna nel paese la calma. ….
01.11.08- Intervista a GIOVANNA AMOROSI.
Nata ad Alfedena nel 1926, sposata nel 1954 col dottor Angiolino Musenga. Attualmente vive a Campobasso. Il dottor Musenga farmacista prestò servizio a Capracotta presso la farmacia di Filiberto Castiglione negli anni 1953, 1954 e 1955. All’intervista è presente, e interviene, anche la figlia Amalia Musenga (detta Lia).
Michele – Signora Giovanna ricorda quella sventura accaduta, la notte dell’8 gennaio 1954, al giovane Ottavio Di Nucci sulla strada che porta da Staffoli a Capracotta? Suo marito gliel’ha raccontata?
Giovanna – Si. Me l’ha raccontata tante volte. Questi sono fatti che non si dimenticano. Ogni tanto quando sentiva nominare Capracotta, tanta neve, si ricordava sempre quella notte. Purtroppo lo spartineve non rientrava e tutte le notizie si avevano da sotto al circolo. Noi abitavamo là a Sant’Antonio, proprio di rimpetto al circolo e alla casa di Matenecola[10]. Io però non ero ancora fidanzata con Angelo. Noi stemmo svegli fino a mezzanotte e oltre, perché si sentiva dalla strada: «Ne è armenute re spazzaneve, ema ie incontro, ema ie». E mi ricordo Attilia Conti, la moglie del Maresciallo Raffaele, sorella di Leo, lei era sempre la prima sotto a quel bar, si sentiva là sotto. Poi quello che più ti faceva effetto era sentire suonare le campane della Madonna[11]. Quando suonavano le campane della Madonna di notte le cose non erano belle. Insomma arrivò il momento che molti decisero di andare.
M – Che cosa successe?
G – Lui, mio marito, tornava da Castellino Sul Biferno dalle vacanze. A Staffoli Leo Conti lo fece mettere dentro la cabina dello spartineve. Gli altri dentro la corriera. Però arrivati a un certo punto lo spartineve si fermò. Gli operai poverini si davano da fare tanto che si sentì male un ragazzo che era tra loro. Angelo si accorse subito che stava molto male, poverino aveva perso i sensi perché era stato sempre a contatto con la neve. Allora gli fece la respirazione bocca a bocca. Cercò di rianimarlo un po’. Si era reso conto che il caso era grave e che c’era bisogno di un medico e di un letto caldo. Bisognava riportarlo urgentemente in paese. Perciò dopo dovettero partire gli aiuti. Andarono molte, ma molte persone. I capracottesi tutti quanti provvisti di mele e arance e con una corda lunga[12] si legarono l’uno dietro l’altro, e se qualcuno cadeva gridavano: «Heee…! Aspettate! Aspettate!». Aspettavano che si rimetteva in piedi e poi ripartivano. Questa era la storia. Arrivarono in paese verso le tre le quattro.
M – Suo marito conosceva quel giovane?
G – Non lo so, questo non me lo ha detto.
M – Quanti anni è rimasto suo marito a Capracotta?
G – E’ stato nel ’53, ’54 e nel ’55 ci siamo sposati e siamo andati via.
M – Ha incontrato quel giovane qualche volta dopo quell’avventura?
G – Lui diceva sempre: «quel ragazzo poverino! Cercai in tutti i modi di aiutarlo. Gli feci la respirazione a bocca a bocca».
LIA – Papà diceva: «Chissà chissà?» Il suo desiderio era di sapere che fine aveva fatto. Io mi ricordo che papà lo ha raccontato tante volte, ed ogni volta che ricordava quell’episodio si commuoveva. E ricordava con affetto i capracottesi perché diceva che erano capaci di compiere queste azioni di solidarietà. Questo fatto di muoversi a catena nel momento del bisogno. Ed ogni volta che raccontava lui piangeva, e avrebbe voluto rivedere questo giovane.
M – l’intervento di papà lo aveva aiutato a rimanere in vita.
LIA – Si si! Lui questo lo diceva! Che lui si era reso conto che questo giovane stava veramente male e perciò gli fece la respirazione bocca a bocca! Ripeteva: «Chissà, chissà se poi !» E’ come se avesse avuto sempre quel desiderio di rivederlo.
G – Quella notte poi Angelo, ritornando a Capracotta, teneva pure il pensiero di dove alloggiare. Aveva cambiato pensione, perché prima mi pare che stava da Ceccarieglie[13], dietro la torre. Poi doveva andare da Nannino[14], il barbiere, che aveva il salone sul corso, ma non sapeva dove aveva la casa. Prima di partire Nannino gli aveva detto: «Tu non ti preoccupare che al ritorno, quando arriva la corriera, io ti vengo a prendere». Se nonchè poi successe tutto questo. Quindi la notte mentre saliva in paese, Nannino lo chiamava: «Dotto, dotto, dotto». Insomma riuscì a trovare la casa. He! Ma se la videro brutta, he! brutta! brutta perché lo spartineve non andava, quel ragazzo si era sentito male, lontano dal paese e con la bufera.
Ricordo un altro particolare quando la corriera e lo spazzaneve rimasero bloccati, e a me fa veramente senso soltanto a pensarlo, tuuuttiii tuuutti quanti accesero le candele dietro ai vetri. Questa è una cosa che io ricordo bene. E di fatti mio marito diceva: «Quando cominciammo a rientrare a Capracotta vedemmo tuuutte le luci accese, tutte candele accese».
Mio marito da allora della neve ha avuto sempre paura. Anche a Campobasso, io mi ricordo in questi ultimi anni lui è andato in dialisi. Come vedeva la neve la mattina diceva: «Ora come facciamo?» Veniva mio genero diceva: «Non ti preoccupare, tengo la 4×4 andiamo. In qualche modo facciamo!» Come vedeva la neve andava in ansia, si preoccupava! Era rimasto impressionato! Perché a Castellino di neve ne faceva poco, quindi lui non sapeva cos’era la bufera! Andava sempre con il medico Luigino Carnevale. Con Luigino sono rimasti amici.
M – Il dottor Antonarelli nel suo articolo non riporta il nome del giovane, secondo lei perché?
G – Guarda Antonarelli e mio marito erano amici poiché Angelo era di Castellino Sul Biferno e Antonarelli era di Lupara, un paesino lì vicino e già si conoscevano di famiglia. Però loro lavoravano in parti avverse. Mio marito stava con la farmacia Castiglione, mentre Antonarelli stava con i Conti, perché lui era pure medico di mamma, e noi stavamo con Italo[15]. Il dottor Antonarelli forse non conosceva il giovane perché era assistito dalla parte avversa .
M – Lei ricorda le rivalità tra le due farmacie?
G – UUU…! Io mi ricordo che se non si trovava da don Alfredo una medicina e magari una terza persona andava da Castiglione era difficile che te la dava. Guarda! Eppure don Filiberto non era cattivo, era il contorno …. Lui tante volte parlava pure con papà. Poi dopo, chiusa la farmacia, con papà ci stava sempre insieme. Mi ricordo che ogni Natale Don Filiberto ci mandava sempre le anguille. Eppure noi non eravamo di quella parte.
Michele Potena
[1] Oltre gli autisti, Leo Conti e Romeo Giuliano, i fratelli ricordano essere presenti quel giorno: i guardaboschi Carmine Evangelista e Loreto Di Rienzo, Loreto Beniamino (re Brecciaiuol), Vincenzo Di Nucci (Sarturella), Leonardo Sanità, i fratelli cantonieri Angelo e Carmine Sozio e Mecaline Papparone.
[2] L’aviere Stefano Proia, di Fontana Liri (FR), morto assiderato il 4 gennaio 1943.
[3] Di quelle donne Pietro ricorda Peppinella de re Brecciaiuole, moglie di Vincenzo Beniamino, fratello di Loreto “L’apripista”.
[4] A parere di chi ha adoperato Clipper il tubo di scappamento, verticale davanti al parabrezza, in fase di lavoro è rovente per cui scioglie completamente la neve che vi cade sopra. In circostanze come questa, mucchi di neve alti fino a sei metri, nei continui urti era molto plausibile che neve si accumulasse sul cofano e parabrezza per cui era necessario l’intervento dell’uomo.
[5] Nessuno dei tre fratelli ricorda il nome del dottor Angiolino Musenga. Scopriremo il suo nome sulla cronaca del dottor Durante Antonarelli dal giornale Momento Sera del 21.01.1954, di seguito riportata in parte.
[6] Il compenso pare che fosse di 400 – 500 £. al giorno.
[7] La partenza da Staffoli per Ottavio e Pietro avvenne tardi tra le 18 e le 19 e non alle 17 come riferito dal dottor
Antonarelli.
[8] A Jaccio della Vorraina, soltanto 600 metri più avanti rispetto al luogo dell’abbandono della corriera.
[9] Sorprende che il Dottor Antonarelli nella sua cronaca non riporta il nome del giovane colpito da malore. Si può spiegare col fatto che Ottavio era un assistito di Luigino Carnevale, fazione medica opposta ad Antonarelli.
[10] Amatonicola Di Rienzo abitava al portone accanto al Circolo Sannitico sul corso San Antonio. La Famiglia Amorosi abitava al secondo piano della casa D’Alena e affacciava verso il Circolo, posizione privilegiata per l’ascolto delle voci provenienti dal basso.
[11] Amelio, il fratello più grande di Ottavio, ricorda il suono delle campane della Chiesa Madre, ed è ciò che trova riscontro con la consuetudine del paese. La Sig.ra Giovanna ricorda il suono della campana della Madonna, anche se ciò risulta insolito non è da escludere, perché quella notte presso la Madonna fu istituito un punto operativo di “riferimento e appoggio” (Vedi cronaca di Antonarelli) in aggiunta all’altro istituito in paese presso i locali del Circolo Sannitico in corso San Antonio.
[12] Pietro, l’altro fratello di Ottavio, riferisce che si presero tutti per mano formando una catena umana.
[13] Francesco Di Lorenzo, calzolaio, padre dei fratelli sacerdoti Don Michele e Don Ninotto
[14] Nannino, barbiere, originario di Civitacampomarano aveva sposato Natina Paglione di Capracotta.
[15] Il servizio farmaceutico e medico Capracotta era diviso in due fazioni riconducibili alle due farmacie ed alle due condotte mediche : farmacia dottor Filiberto Castiglione nella gestione della quale, negli anni, si sono succeduti diversi farmacisti tra i quali il dottor Musenga. Collegata a questa farmacia vi era la 1^ condotta medica e tra i medici vi fu il dottor Luigino Carnevale. Nel 1954 i dottori Musenga e Carnevale si trovarono ad assistere il giovane Ottavio Di Nucci; farmacia dottor Alfredo Conti alla quale era collegata la 2^ condotta medica tenuta dal dottor Italo Conti, figlio di Alfredo. La 2^ condotta fu istituita sul finire degli anni 40 su iniziativa del Sindaco, dottor Gennarino Carnevale, anch’egli farmacista a Roma. Nel 1961 la titolarità della farmacia Castiglione fu trasferita alla dottoressa Noelia Sabatini e la 1^ condotta medica fu assegnata, dal Sindaco dottor Carmine Di Ianni, al dottor Antonio Di Nardo, coniuge di Noelia. E i contrasti continuarono.