Una signora di tanto in tanto, aiutava le suore e spesso era chiamata per dare una mano per portare avanti l’asilo. Le suore la ricompensavano con piccoli doni che rappresentavano spesso l’indispensabile per vivere.
Ma mettere un pranzo a tavola era sempre un problema e un giorno la signora non aveva altro che fagioli. Inviò il figlio alle suore per chiedere una cotica che lei aveva visto appesa e che avrebbe potuto, cotta insieme a fagioli, completare il magro pasto. Questo ragazzino aveva un piccolo difetto di pronuncia: non riusciva ancora a spiaccicare la lettera “c” che sostituiva con la “t”.
Quindi dopo aver suonato alla porta, alla suora che gli chiese cosa volesse disse: «’A ditte mamma se me può dà théla tutetélla» ( ha detto mia madre se mi puoi dare quella piccola cotica). La suora si fece ripetere molte volte la frase: o faceva finta o proprio non afferrava il senso della richiesta. Alla fine lo sveglio ragazzino non ne poté più e sbottò: «The tazze è, ma ne n’ tapisce propria niénde!” (Che tazzo è, ma non tapisci proprio niente!). La suora subito lo rimproverò perché non si dovevano dire le parolacce. E lo sconsolato bambino di rimando: «Tazze tapisce, ma tutetélla nò!»
L’episodio fu oggetto di numerose conversazioni e da quel momento spesso bastava ripetere “tazze” a qualcuno, per fargli immediatamente capire qualcosa che non voleva capire!
Domenico Di Nucci