Il nostro Oreste Conti nel 1911, nell’opera “Letteratura Popolare Capracottese” con prefazione di Francesco D’Ovidio- ed. Pierro-Napoli, riportò “Locuzioni e modi di dire”, “Usi e costumi”, e, nella parte comprendente “Proverbi e indovinelli” incluse tre “novelle”: La pecora con le corna d’oro, Belloccia e La fata e le sette chiavi.
Con felice sorpresa le tre citate “novelle”, a distanza di oltre 80 anni, vengono riportate nel libro intitolato “Fiabe, leggende e racconti popolari del Sannio”-ed. Cosmo-1993 del ricercatore del folclore molisano, Mauro Gioielli.
Novelle che ricevono, così, una nuova vita continuando ad essere lette ed esistere ancora per essere ulteriormente tramandate nel tempo, facendo sognare i lettori un mondo fantastico.
Fiabe che le nostre mamme e nonne raccontavano ai piccoli dinanzi al fuoco scoppiettante del camino, durante le lunghe sere d’inverno, per intrattenerli o per conciliare il sonno, quale effetto sedativo, rilassante, allontanando situazioni disturbanti.
Racconti ascoltati e trasmessi nel tempo, arricchiti di immagini e luoghi scaturiti dalla fantasia del narratore. Racconti che, per lo più, con una conclusione appagante e lieta, forse dettata ai fini di una visione della vita serena ed ottimistica, pregna di positive soluzioni.
Fiaba popolare orale, espressione di cultura, nata dalla locale fantasia o derivata da quella letteraria, ma comunque rimaneggiata sempre con estro fantastico e collocata nel contesto socio-economico, storico e culturale del tempo, piena di poesia e sentimento, cogliendo lo spirito contemporaneo della gente.
Nelle fiabe da testi originali in dialetto trascritti in italiano, talvolta con qualche espressione primitiva, vi è la presenza di vari elementi: la realtà, il fantastico, la provvidenza, la superstizione, la paura, la miseria ecc., in quelle di Oreste Conti appare la morte, la sofferenza, la provvidenza, la magia, la gelosia, la fantasia, l’invidia, ma per tutte e tre la fine è sempre gioiosa.
Parimenti lieta la conclusione per l’”Anonimo” cantastorie che, dopo aver raccontata la fiaba, dice di aver avuto “soldi, confetti e un abito”.
E sempre in tema di racconti piace ricordare che il nostro Domenico Di Nucci nel lavoro “I fiori del Paradiso”- ed. Cicchetti- Isernia- 2005 , facendo riferimento alla sua infanzia, ne riporta otto , trascritti dal dialetto in italiano con qualche parola originale, e in tal modo omaggia la storia culturale della sua Capracotta.
Narrazioni di fiabe, oggetto di molteplici studi, resoconti della storia locale, piene di fantasie popolari passate di bocca in bocca che, certamente, nel loro dialetto primitivo avevano musicalità, espressività, vivacità, perdute nella trascrizione in italiano.
Novelle, come poesia diffusa tra il popolo, come letteratura popolare presente nella cultura orale, incastro tra chi narra e chi ascolta, consentendo a costui di volare in alto con la fantasia.
Novelle, racconti, fiabe, per le cui letture, anche l’adulto, nel quale è sempre insediato un antico “fanciullino”, può trarre un senso di beatitudine, di svago, di sollievo, magari a sera, prima di addormentarsi, relegando nei remoti angoli del suo vissuto quotidiano, le angustie e i tormenti di ogni giorno.
Ben accetti, quindi, questi riscoperti ricordi perché, in tal modo, si conserva nel tempo, preservandolo dal dimenticatoio, il patrimonio di una cultura collettiva che è una delle prerogative essenziali della letteratura.
Contemporaneamente ci si rallegra e ci si inorgoglisce perché, attraverso le pagine di un antico testo, rinnovate con una recente lettura, Capracotta dimostra la sua imperitura vitalità.
Felice dell’Armi