Emilio Buccafusca (a sinistra) sull’Aremogna
Ultimo della classe, pigro, svogliato, si staccava dalla piattaforma della Stazione di Piazza Garibaldi, tra la disattenzione generale, alle zero quaranta.
Non lo degnavano di un’occhiata nemmeno i facchini che, malgrado i viaggiatori fossero curvi sotto il peso di cassette per militari in licenza, valige di cartone legate con lo spago, spropositati fagotti approssimativi, non avevano per quel treno mai nulla da trasportare.
Treno autarchico, almeno dal punto di vista del facchinaggio. Ed a questa autarchia obbedivano soprattutto alcuni esseri strani e misteriosi che una sera, mai visti prima, come sbarcati da un ignoto pianeta, apparvero portandosi a spalla due lunghe assi cornute, impattate a due mazze di nocciòlo con alla punta un chiodo e due rotelle di bambù.
Pantaloni alla zuava, scarponi di montagna, sacco alpino, occhialoni scuri appesi al collo o sistemati a nastro sul cappello, andatura di allegria (si vedrà fra poco), carburata da un solido appetito.
Viaggiavano in terza classe e piuttosto che mettersi a dormire intonavano cori della naja. Un cantare dolce, caldo, melodico. Attenuato e in sordina diventava quasi un mugolio di tribù pagana riunita a propiziare gli spiriti della propria divinità: la neve.
Una divinità surgelata rispetto al sole di Napoli ma bella, soave, immacolata e castissima, salus infirmorum, lontana e raggiungibile in otto ore. Otto interminabili ore notturne di un viaggio ch’era una veglia d’amore.
Non possono intenderla certo i viaggiatori dei jet che in molto meno trasvolano continenti. Eppure fra quel treno e gli aerei d’oggi non sarebbe cattivo gusto elencare qualche differenza.
Quel treno partiva senza rumore e si fermava a tutte le stazioni. Non così fanno gli aerei che non si fermano mai. Qui si dorme, li non si dormiva. Negli aerei nessuno oserebbe, anche se folle, mettersi a cantare. In quel treno il canto era un mito, una necessità primordiale, un bisogno religioso.
Sugli aerei si consumano pasti, serviti ad aria pressurizzata, leggeri più del vasellame che li contiene, commestibili in pochi minuti, sterilizzati, asettici, lucidi di cellophane, inodori, spesso insapori, ma sempre bilanciati come i mangimi del veterinario.
Per quel treno (che dopo molte piccole fermate si concedeva uno scalo di due ore, nel pieno della notte, a Caianello-Scalo) era possibile accomodarsi nella cucina del gestore del bar della stazione e sentirsi cavalieri erranti accolti da un ospitale signore del medioevo.
C’era un camino che vampava come un altoforno. A quel fuoco si arrostivano metri di salsiccia paesana. Strizzati nelle pagnotte, prima di essere addentati, gemevano oro suino a 24 carati. Si delibavano melanzane sotto aceto, si vuotavano fiaschi a volontà ed alla fine per stabilire un ordine in tante fonti di energia si ordinavano mozzarelline allo spiedo che nel rosolarsi ingentilivano l’atmosfera già satura di odori patriarcali piuttosto robusti.
L’accelerato, con le vetture ormai refrigerate dalla sosta all’addiaccio, si rimetteva in marcia alle quattro e dodici.
Tùnf, tùnf, Tòra-Presenzanòòòò… Buio pesto. Non si vedeva né Tòra, né il nobilissimo feudo di Presenzano.
Sesto Campanòòò… ciùf, ciùf, ciùfff… Venafròòò… ffffff, tozza, tarchiata, la vaporiera grassottella, annusava la notte con sospiri di faville, con boccate di fumo che somigliavano un poco a quelle del Vesuvio (allora ancora in attività di servizio).
Ripartiva per rifermarsi. Ad ogni stazione gli stessi sbuffi, le stesse nubi basse di vapore nelle quali andava a perdersi la lanterna cieca, agitata dall’uomo nero, capotreno, capostazione, controllore, guardia-freni, l’uomo tutto, l’uomo-corno-di-ottone che ad ogni partenza soffiava ostinato la carica come il trombettiere di uno squadrone di cavalleria decimato fino all’unità: una cavalla sola, la locomotiva.
Roccaravindolààà, Macchia d’Iserniààà, S. Agàpito Longanòòòò. E così sempre avanti nella notte sempre più fredda e più nera. Un favoloso itinerario, una litania di stazioni con due, tre nomi, anzi col nome, il cognome, la paternità. Caprinonééé, Sessàno-Civitanova, Pescolanciano-Chiàuci, Carovilli-Roccasicura, S. Pietro Avellana-Capracottàààà. All’appello non mancava nessuno. Sembrava senza mai fine quella lista di reclute d’una invisibile Armata del Sogno.
Montenéro-Valcocchiara, Alfedéna-Scontrone: il primo brivido. Era già 1’ora della “madrugada”, era cioè quel momento cosmico nel quale il giorno ancora non è nato e la notte si attarda a morire. Gli italiani che sanno tradurre in proprio tante cose questa parola ancora non l’hanno assimilata. Bene, alla “madrugada” si scopriva il primo biancore della terra. Era luce irreale, un manto che tuttavia esisteva e più che vedersi s’intuiva.
La vaporiera intanto, alla stazione di Castel di Sangro, si preparava all’ultimo balzo. Prendeva fiato come un atleta ormai molto avanti negli anni che sa per esperienza il fatto suo. Si faceva controllare da un esperto l’arma segreta dello spazzaneve che nella bocca le traballava come una dentiera.
A S. Ilario Sangro, il miracolo del primo raggio di sole, il primo raggio del primo sole che insieme al treno del mattino saliva a dare il buongiorno alla Rocca sul Ràsine.
Altera, superba, questa rocca? No, tutt’altro. Era un pugno di case raggrumate come un gregge freddoloso intorno al campanile della chiesa madre. Un timido umile gregge vegliato dalla pace e dal silenzio. La cappella di S. Bernardino a mezza strada tra la rocca e il santuario di Portella era chiusa dalla neve. A Portella, in solitudine, viveva un eremita e nella più nuda semplicità cantava eterne lodi ascoltato soltanto dal Signore. Aveva una minuscola campana che nessuno suo146 nava mai. Bastava già il suono di quelle della chiesa-madre dove S. Ippolito il guerriero ostentava corno e corazza o quelle di S. Rocco che offriva ad esempio di patire le proprie morsicature a sangue raggrumato. Nella voce umana, familiare, intima, universale, sommessa, discreta, malinconica e dolce delle uniche campane di Roccaraso, ad ora fissa, si trasmetteva la voce e la presenza di Dio.
Qui, alla Rocca sul Ràsine, l’accelerato delle zero quaranta da Napoli, depositava alle 8 gli “skiatori” (sì, proprio col “k”) che quando erano numerosi non superavano mai la ventina.
Si avviavano subito al Vallone di San Rocco disseminando nell’aria che odorava d’incenso, odori di catrame e paraffina. Sfoderati due magici nastri di pelle di foca li incollavano agli ski avventurandosi alla Seltetta, all’Aremogna, al Rifugio, alle Toppe del Tesoro, al Pratello, al Monte Greco. Erano a volte capaci di una traversata difficile quanto quella di Nansen in Groenlandia: la Roccaraso-Scanno.
Erano pochi ed il silenzio li ingoiava come pesciolini buttati nell’oceano. Nella distanza sembravano formiche, puntini, granelli semoventi. Skiavano tutto il giorno col sacco sulle spalle dove portavano viveri, indumenti ed accessori preziosi, come ad esempio, una spatola di alluminio a forma di lancia. Era nientemenoche la punta di ricambio di uno ski. La possibilità di rottura era frequente. Quell’arnese stava agli ski come la ruota di scorta alle bucature di un’automobile. Tornavano alla base entro le cinque della sera. L’accelerato del mattino era ad attenderli per riportarli a casa. Nel viaggio di ritorno dormivano tutti. Un sonno solo, da Roccaraso a Napoli, Piazza Garibaldi. Ed anche molti sogni!
Adesso a Roccaraso si arriva in due ore di automobile. Quel grumo di case addossate l’una all’altra, pecorelle di un gregge infreddolito, è un’esplosione di superbia e di spavalderia, una frenetica gara di condomini e grattacieli, penta-camere e triservizi. Al calore dei grandi alberghi fa eco la luce delle insegne fluorescenti che gridano alle falangi di sciatori: boutique, snack, night, coiffeur, bar, winter-sport. Parole familiari al linguaggio dell’Italia del benessere in piedi su quella del malessere, l’Italia atlantica dei drinks, degli ski-lift, degli ski-pass!
Nel Vallone di San Rocco c’è la SITAR con i cavi e i seggiolini del Belisario e di Roccalta. Pelli di foca addio! All’Aremogna si arriva in automobile e la strada è sempre sgombra, il rifugio è in compagnia di alberghi, pensioni, ville sotto l’arcobaleno permanente delle funi di tre impianti che permettono di fare in un giorno più discese di quante una volta non si potessero fare in tutta la stagione.
Al Pratello, alle Toppe del Tesoro, ci si dà appuntamento come in città ad un caffè del centro.
Alla Portella, l’Eremita viaggia in utilitaria, fuma Marlboro, si nutre di Tivù. Per quanti si recano in chiesa l’incenso è chimico e le campane hanno la voce dell’Enel. Suonano elettricamente come le chitarre beat. Il Curato indossa il clergy. Sulla neve di quella che fu la bianca, immacolata Rocca sul Ràsine, si posa un grasso velo di smog.
Alle cinque della sera la stazione ferroviaria è deserta e l’ultimo guardiano recita un requiem per un fantasma. Non parte e non arriva nessuno. Sui binari silenziosi scende con la sera un’ombra che assume le sembianze di un treno. È quello degli skiatori e chiede di essere ricordato ora che l’orgia del vivere si pasce di altri miti.
Emilio Boccafusca
Fonte: E. Boccafusca, “Quel treno delle 0.40” in Rolly Marchi, Dove lo Sci, Milano, Editoriale Milanese, 1967