Mi piacerebbe essere uno scrittore per descrivere con proprietà di linguaggio e in modo forbito come farebbe un professionista della penna, invece, ogni volta che scrivo, è una sofferenza per cercare di essere sulle rotaie della forma e della grammatica. Quando mi lascio andare dalla scorrevolezza della creatività, rischio di essere incomprensibile anche a me stesso. Per essere sincero non amo rileggere quello che scrivo, un po’ per pigrizia e un po’ per un’inconscia presunzione, perché credo che sia compito degli addetti o tecnici, come gli insegnanti di lettere, fare le correzioni.
Immagino, pertanto, la presenza di scrittori qualificati. Tale idea l’ho espressa anche al Sindaco in occasione della presentazione del Diario di Capracotta, a cimentarsi a un concorso letterario, a scrivere in una di quelle tipiche case di pietra le cui mura superano anche il metro di spessore e che ben isolano dal freddo e dal caldo e nel loro interno conservano lo spirito del passato ricco di sofferenze, gioie ed anche rassegnazione. Comunque, non ci sono impedimenti per dire il mio rapporto con questo singolare paese d’alta montagna: Capracotta.
Quando alcuni decenni fa ci andai per la prima volta, non sapevo niente, nemmeno l’ubicazione, lo conoscevo solamente per il suo clima, le nevicate storiche che lo isolavano e la bontà delle melucce chiamate limoncelli e il caciocavallo. Fui piacevolmente impressionato dalla natura boscosa e anche di piccoli paesi abbarbicati a uno spuntone di roccia o a essa accostato come Villa Santa Maria. La strada impervia passava attraverso l’unico paese di mia conoscenza: Bomba. Curioso per natura, chiesi se intorno ci fossero i lupi e le aquile, ma fui deluso dalle risposte vaghe.
Che fascino mettere piede dove il passato era chiuso, immobile, in un clima piovigginoso e freddo, fra ordinate cataste di legna da ardere e case legate a treno con la pietra viva dello stesso colore del cielo. Esse non sono più alte di due o tre piani e aumentano nella parte retrostante di un ambiente dove venivano custoditi animali, prevalentemente maiali, galline e pecore. L’aria mescolava il profumo della stalla con quello delle erbe selvatiche e del legno, però leggero e purificato. Avido di sensazioni ho fissato alcune immagini con la fotografia e in modo dettagliato le radici nude di alberi ai lati della strada. Una lieve foschia dava stimolo alla comunione con le cose. Questa sorta di unicità con la natura, si è disfatta col tempo; sono scomparse le stalle che contribuivano a una sorta di indipendenza economica e anche i cumuli di legna, perché la modernità ha imposto il consumo di gas, rivestite le pareti con intonaco colorato, rifatti i tetti che erano altamente pittorici con pietre fissanti e annullati i piacevolissimi e fantasiosi comignoli. Il tempo ha incominciato a scorrere più velocemente tranne che nel periodo invernale. Si aveva la sensazione come di un’unicità del tempo non scandito da ritmi dovuti al pranzo o altro, nemmeno dalla notte. Tutto a rilento, una continua dilatazione dal sapore di attesa, magari di una risposta, di una notizia, di una pensione e chi sa di che altro… forse: astratto, oppure, senza tragicità, la morte. Ho scoperto ogni cosa che per me era fuori di ogni concezione, come il simbolo di un maschio e una femmina, stilizzati e posti in bassorilievo piatto sulla porta di una chiesa, per indicare dove dovevano disporsi i diversi sessi all’interno della navata.
Le vie non sono molte, ma ben tenute, anche se le indicazioni sono scritte in minuscolo, come ad esempio: Dante Alighieri. Magnifiche le scalinate arredate con vasi di fiori e panche, estese per tutto il paese. Non mancano angoli molto pittorici, come un paio con un’arcata fra le case, che dà modo di collegare pedonalmente due strade. Sono pochi i balconi per ovvie ragioni di neve e gelo, ma ornati con vasi di fiori.
Il silenzio è esaltante, alla stregua dell’aria pulita che, delicatamente leggera, invita a porsi sulle ali di una farfalla. Ho scoperto l’atavica piacevolezza del profumo delle foglie di una pianticella che nasce ai margini delle strade, della quale nessuno per anni, ha saputo darmi notizia. Poi, finalmente, nell’orto botanico, so trattarsi della famosa artemisia o assenzio, dalla quale in passato si ricavava una bevanda, poi proibita, che era fortemente usata nella Parigi fine ottocento dagli artisti amanti di droghe.
La cucina locale è povera per l’altitudine, ma ho mangiato le pappardelle al sugo di cinghiale, il cui sapore è rimasto indelebile nella mia memoria. A Capracotta producono la rinomata treccia, la stracciata, il caciocavallo, i burrini, le scamorze, la ricotta e altri formaggi che sono di una bontà ineguagliabile. Dimenticavo la pezzata, sagra della pecora cotta alla callara con alcune erbe, che si tiene la prima domenica di agosto e richiama troppi turisti.
Qui ho scoperto un frutto per me eccezionale, una prugna verde chiamata vanghrò, che non conosce il senso dell’acre, e ne sono ghiotto. Non oso descrivere la perdita della pizza con i peperoni rossi cotti al forno a legna. L’aria fresca e pura crea una grande metamorfosi di piacevolezza agli insaccati lasciati ad asciugare anche al fumo.
A Capracotta è stata l’unica volta che ho mangiato la scapece, un pesce conservato, attratto dal colore zafferano. Il clima, si sa, è per undici mesi fridde e uno frische. Bello il dialetto, che ha assonanze con quello napoletano e alcune durezze, che hanno il sapore di montagna. Contemplare l’alba e il tramonto è un momento d’alta poeticità che lega agli altissimi livelli religiosi e alle riflessioni profonde. Ho ammirato in un anfratto un giglio tigrato, che mi ha sorpreso perché non colto da mani sacrileghe. Nello stesso luogo, un po’ sopra, ho goduto la visione, in primavera, di una lunga cascata d’acqua.
Che meraviglia il cielo stellato, consente l’avvicinamento e la partecipazione dell’infinito e permette di seguire le rapide traiettorie dei satelliti artificiali e delle stelle cadenti.
D’estate la notte è animata da rappresentazioni teatrali, concerti, balletti e sfilate di moda in piazza, con un tocco d’internazionalità. Godibile il suono dell’orologio civico che si lega a momenti con quelle delle campane della chiesa Madre.
Il fulcro è la neve. Questo fenomeno atmosferico, ogni tanto, si manifesta in modo sproporzionato tanto da raggiungere e superare gli otto metri. Gli abitanti si sono attrezzati per conviverci perché, a volte, perdura per diversi mesi. Basta osservare come sono fatte le imposte: le porte hanno una lastra di legno rivestito di metallo posta in basso in modo leggermente inclinato verso l’interno; le finestre sono con sportelloni incorniciate da portanti di legno colorato verde che si sposano perfettamente con la pietra squadrata. Guai uscire durante la bufera da una porta che guarda la direzione del vento, non si rientra, tanta è la neve che s’accumula in pochi minuti da non consentire la richiusura.
Quando esce il sole, la neve ghiacciata determina un mondo incantato, soprattutto nella Villa, dove gli alberi splendono come fate. Altro ambiente esaltante è di certo la pista per sci di fondo, a Prato Gentile, così ben messo da disputarci gare anche internazionali. Io, che non sono uno sciatore, la percorro d’estate a piedi tra la frescura del faggeto dove si scorgono le fragoline selvatiche fra le alte erbe, fiori e insetti. I funghi li vedo ma non li colgo, al più, li fotografo.
Sorrido al ricordo di un giorno che sono andato dietro la banda, dopo uno scroscio di pioggia per la festa di Santa Lucia. Ero insieme a un cane, un po’ commosso fino a umidire gli occhi e, tra l’esaltato e lo sconcertato, mi chiedevo perché gli altri fossero così insensibili alla musica. Il tutto condito dalla tenerezza nel vedere alcune ragazze bandiste. Ho capito il detto che dice: li cannele si cunsume e la prucissione nin parte, tanto sono stati lenti da ritardare di un’ora. Pazienza. Nella pinetina, vicina ai campi sportivi, quasi quotidianamente vado a leggere, scrivere e disegnare, ho assistito al litigio di due scoiattoli che si rincorrevano tra i rami, intorno al tronco e gli spettacolari salti da un albero all’altro.
Più che godibile è il silenzio venato dal suono, in lontananza, dei campanacci, che portano al collo le mucche al pascolo e il richiamo di un rapace in perlustrazione. Alcuni cani pastori abruzzesi gironzolano liberi per il paese e, per evitarli, a volte ho fatto marcia in dietro. Piacevolissimo è stato l’incontro notturno che ho avuto con una volpe, che faceva a nascondino in attesa del mio allontanamento per andare ai bidoni della spazzatura. Un angolo suggestivo e vertiginoso è il terrazzo-belvedere a lato della Chiesa Madre che spazia sulla valle del Sangro fino alla Maiella ed è il luogo dove i ragazzi esibiscono spavalderia sedendosi sul muretto di protezione che cade spiovente per centinaia di metri. Esso è anche lavagna di messaggi amorosi, sociali e sportivi scritti prevalentemente con pennarelli.
È terrificante il suono del tuono che sembra voler ricordare la supremazia della natura e l’onnipotenza di Dio. Al contrario, è accogliente e misericordiosa la chiesetta della Madonna di Loreto, ben tenuta in un luccichio dorato internamente degno della santità, tranne il misero rosone ligneo.
La Chiesa Madre, come per miracolo, si erge sul precipizio su una roccia che sovrasta il paese. La sua aria severa, quasi di rimprovero, con un tocco di goticismo abbandonato su una facciata laterale, cambia nel suo interno barocco con dipinti moderni della via Crucis. In uno stato di quasi totale abbandono, che più volte l’ho trovata chiusa, è la chiesetta oratoria di San Vincenzo Ferreri. A pianta quadrangolare, disadorna, presenta la statua del Santo con le ali e una fiammella sul capo alla stregua di un Arcangelo. Ho chiesto spiegazioni a diverse persone e sacerdoti sul perché questo Santo avesse tali caratteristiche. Un anziano mi ha dato lumi, dicendo che è un Angelo dell’Apocalisse, glorioso Apostolo e Taumaturgo.
Come ho già detto, non sono uno scrittore, ma un poeta, anche se autodefinirsi, è più che antipatico e, come tale, trovo Capracotta un ambiente che offre stimoli riflessivi, meditativi, contemplativi e creativi. Ciò avviene prevalentemente su quelle panche, anche attrezzate per il picnic, mancanti di manutenzione, poste ai margini delle strade periferiche a ridosso di pinete. In questi luoghi ho avuto piacevoli incontri tra cui uno con un sacerdote, insegnate di filosofia, il quale ha apprezzato quanto avevo appena prodotto in versi. A Prato Gentile, una comitiva di Cuma, si è seduta dove ero io, per consumare il pranzo all’aperto e ha voluto che leggessi quanto avevo appena scritto e, con mia sorpresa, mi sono ritrovato a declamare con giusto tono vocale e cadenza, cosa che non avviene quando sono invitato alla lettura in pubblico. La comunione con la natura benevola, ha agevolato espressione disinvolta e disinibita e, quei signori, tra cui diversi insegnanti ed ex poetesse, hanno preteso la copia dei miei versi.
Nel territorio spiccano: la contrada Macchia, nella cui zona archeologica fu ritrovata la famosa tavoletta osca bronzea, ora a Londra. Quando l’ho saputo, è stata tanta la suggestione, che su di essa ho scritto e illustrato il poemetto Cerealia.
Monte Campo, somigliante a San Marino, si erge con la croce ferrea sulla sommità e da qui si riesce a scorgere, nei giorni limpidi, l’Adriatico e il Tirreno. Tra i resti di mura ciclopiche su Monte Capraro, c’è aria di mistero e di religiosità. Il torrente Verrino, ha il fascino selvaggio misto a spettacolarità fiabesca per le cascatelle.
A confine, nel territorio di Pescopennataro, c’è l’Eremo di San Luca, con la roccia fa da padrona tra i boschi e l’aria incontaminata sembra ferma ai tempi di Gesù. Il precipizio a lato, dà le vertigini e fascino per il dominio sul sottostante e un senso di elevazione spirituale. I cittadini sono molto cortesi e disponibili, con momenti di distacco totale, tra la superbia e il non voler essere toccati dalla loro solitudine.
Quanto ho cercato succintamente di descrivere, suppongo con scarso risultato, è un suggerimento per far vivere direttamente a chi mi legge, il contatto diretto con Capracotta e trarne la sua anima, oggi mascherata da un aspetto “svizzero” che sa di asettica pulizia. Viamene, espressione tipica per dire: andiamo, muoviti o passaci su. Resto in attesa di un eventuale concorso, da me suggerito agli amministratori comunali (consistente nell’ospitare, almeno per una settimana, alcuni scrittori in paese per scrivere un racconto che traduca quanto detta il paese o altro), per avere il piacere di leggerli.
6-2-2009
Vinicio Verzieri