Michelangelo e Carmǝluccia
Il rumore sordo, cadenzato, della scure abbattuta sul ceppo a tagliare la carne e spezzare le ossa degli animali macellati, venduti poi al dettaglio, ci accompagnava tutti i giorni, dal mattino al tramonto, come un suono familiare.
L’abitazione di Raffaele Battista (la Chianghéra) era attigua alla nostra e vicine, in tutti i sensi, erano le nostre famiglie.
Il locale di macellazione e quello adibito alla vendita erano a piano terra, così come la bottega di mio nonno e mio padre, calzolai, nella nostra abitazione.
Al banco di taglio e vendita talvolta Iolanda, seconda moglie di Raffaele; donna paziente e rassegnata, in tempi di maschilismo dominante, a sopportare il marito ed accudire la numerosa famiglia. Più spesso però c’era Carmǝluccia (Carmelina), figlia del primo matrimonio di Raffaele, ragazza, sveglia, intelligente, bellissima, affettuosa e protettiva nei confronti delle sorelle e dei fratelli nati dal secondo matrimonio del padre. Intima amica di mia sorella, era di casa nella mia famiglia.
Non di rado, a servire i clienti c’era Michelangelo, il primo dei nati dal secondo matrimonio; ragazzo allegro, sorridente, dal carattere socievole ed espansivo, buono ed amico di tutti.
Il matrimonio di Carmǝluccia, nel 1957, ed il suo trasferimento a Lucera col marito Giangregorio, fu un distacco doloroso oltre che la perdita di un valido sostegno materiale e morale per la famiglia tutta.
Più tardi poi, nel 1959, la malattia del fratello più piccolo, Tonino, ed il suo temporaneo ricovero in ospedale, accompagnato dalla madre, colpirono tanto duramente il morale di Raffaele da portarlo a morte nel giro di breve tempo.
Il peso della famiglia si riversò d’un tratto tutto sulle giovani spalle del volenteroso Michelangelo. Lo vedevamo spesso, di buon mattino, condurre gli animali al pascolo e la sera, al ritorno, aiutato da Iolanda, intento a concludere la giornata nel locale di macellazione.
Tempo per scambiare quattro chiacchiere con gli amici non ne rimaneva; solo qualche fugace battuta, di sfuggita, in brevi intervalli di riposo, molto rari.
Chiarina, Tonino, Anna Maria, Lucia e Concetta vedevano in lui la figura e la presenza di un secondo padre; mai li deluse e sempre seppe essere all’altezza del duro compito assegnatogli dalla sorte avversa.
Quando finalmente le acque sembravano calmarsi e si profilava all’orizzonte una navigazione più tranquilla, fiaccato sì dal lavoro ma fiducioso nel futuro che si stava con tenacia costruendo, a causa delle eccessive fatiche e dei disagi ai quali si era generosamente esposto, colpito letteralmente al cuore da una ingenerosa malattia, in una gelida e nevosa giornata del gennaio 1968, Michelangelo ci ha lasciato. Aveva appena compiuto 26 anni.
Questo grave lutto avvicinò ancor più la famiglia Battista alla nostra; ancora oggi l’amico Tonino ricorda con affettuose parole la figura di mio padre Cicciotto.
Nel 1990, la prematura scomparsa di Carmǝluccia provocò un altro doloroso vuoto; ho ancora vivo il ricordo della mattina in cui, presso la cappella dell’ospedale S. Camillo a Roma, le demmo l’ultimo saluto.
Sono passati ormai molti anni; il ricordo dei momenti trascorsi a casa della famiglia di Raffaele mi tornano spesso in mente; non ci sono però solo ricordi tristi, dolorosi.
Tanti in allegria ne abbiamo trascorsi con Tonino, assieme a Nicolino, Ermanno e Peppino D’Andrea.
Ricordo quando talvolta Raffaele, tornato a casa la sera dopo la consueta chiacchierata con gli amici alla cantina di Cristina (dɘ rɘ carcɘriérɘ), situata sotto i locali del vecchio carcere, seduto nel mezzo della piccola stanza che fungeva da cucina-soggiorno, aspettava che tutti i membri della famiglia, nessuno escluso e compreso il sottoscritto, passando davanti a lui facessero l’inchino e, baciandogli la mano, pronunciassero la frase di rito: “Bònaséra dun Raffaiélɘ”. E guai a ridere; dopo uno scapaccione, si doveva ripetere!
Tutti avevano alla fine trovato la propria strada e dato vita a nuove famiglie; era rimasta la sola Iolanda.
La vedevamo quasi sempre affacciata alla finestra a guardare i passanti in strada, scambiare un “buongiorno, come stai?”, per sentirsi meno sola. Ha poi raggiunto Tonino a Milano dove ha concluso la sua faticosa esistenza prima di tornare a riposare, finalmente, nel suo paese, a Capracotta.
Vincenzino Di Nardo