Primario del reparto di Malattie infettive a Rieti, attualmente in pensione, Vincenzo di Nardo, anch’egli originario di Capracotta, è uno degli amici più cari di Ermanno D’Andrea e il collaboratore più assiduo e ascoltato di tutti i progetti d’impianto socio-sanitario che ha portato a termine. In questo intervento racconta la genesi del progetto socio-educativo realizzato nella Guinea Bissau e di una visita alla missione del febbraio 1992, che svolse con un gruppo di esponenti del VISPE di Saronno.
Tutto cominciò sul Cervino, dove andavamo a sciare in compagnia con Ermanno, don Ninotto, Totore, Massimo ed altri. Eravamo in cima al Furgeen, saliti con la cabinovia (chiusa ormai dal 1993) che in un’unica campata portava dai 2287 metri di Plain Maison sino ai 3486 del Furggen. Ci fermammo ad ammirare il panorama di una bellezza mozzafiato da farci sentire in imbarazzo per il solo privilegio di poterla contemplare.
Mi venne da dire che avremmo dovuto fare qualcosa per meritare uno spettacolo gettato come un ponte fra la terra, il cielo e il Signore che lo abita.
Ermanno è una persona pratica, concreta, con la mente rivolta alla soluzione dei problemi, di ogni natura ed entità.
“Organizziamo una raccolta fondi per sostenere una missione umanitaria in Africa”, gli venne da proporre mentre già stava almanaccando una serie di iniziative per dar corso a quello che sarebbe diventato l’importante sostegno al lavoro di padre Dionisio Ferraro nella Guinea Bissau, nell’Africa più povera ed emarginata.
Con Ermanno, Massimo, don Ninotto ed il buon Piercesare siamo stati ospiti della missione di Bissau per una decina di giorni; ne conservo ancora nitidamente il ricordo.
Mancava poco all’atterraggio quando un passeggero di nazionalità portoghese, che si recava in Africa per lavoro, ebbe un improvviso malore.
Avevo con me in cabina una capiente valigetta: qualche medicinale d’emergenza ed un minimo di attrezzi del mestiere, sotto cui avevo anche sistemato un po’ di formaggi e di salsicce che, mi aveva suggerito Ermanno, non avremmo sicuramente trovato in Guinea.
Appena possibile mi avvicinai al passeggero, febbricitante e privo di conoscenza; mi feci aiutare a stenderlo per terra per un pronto intervento mentre intorno a noi si radunavano alcuni viaggiatori.
Feci per estrarre dalla borsa l’apparecchio per misure la pressione ma, nella fretta che la situazione imponeva, la valigetta si rovesciò mettendo in bella mostra i beni di conforto che nascondeva in fondo. Ci fu solo un attimo di imbarazzo da parte mia ed i sorrisetti di una malcelata invidia dei presenti che per un momento, dimentichi del portoghese concentrarono la loro attenzione su quel ben di Dio. Effettuato il primo soccorso e constatato il miglioramento del passeggero, atterrammo poco dopo; una specie di carretta-ambulanza attendeva all’aeroporto il paziente per trasportarlo in una struttura che solo enfaticamente chiameremmo ospedale.
Il giorno seguente tornammo a trovare il paziente che era stato sistemato alla meglio su un lettino, in una cameretta, la meno peggio dell’ospedale; temevano di avvicinarci alle pareti, sporche e con tracce di sangue, con il timore di venirne a contatto.
Mi assicurai che non corresse rischi di sorta e gli augurai buona fortuna.
Padre Dionisio ci accompagnò poi a prendere un caffè nell’unico Bar decente della città, proprietà di una italiana che pare fosse in buoni rapporti col Presidente dittatore dell’epoca. Fatte le presentazioni volle subito informarci della notizia, rapidamente diffusasi nella capitale, che nel corso della notte, durante l’atterraggio dell’aereo, un passeggero portoghese era stato salvato per l’intervento provvidenziale di un medico svedese; nel giro di poche ore avevo ottenuto, senza sforzo né intralcio burocratico alcuno, una nuova nazionalità.
Nei giorni seguenti facemmo un giro nel territorio dell’interno, ancor peggio dotato, dal punto di vista sanitario, rispetto a Bissau. Visitammo una specie di lazzaretto, sprovvisto non solo di letti decenti per i pazienti ma anche di un termometro per la misurazione della febbre; i malati praticamente abbandonati su giacigli sistemati alla meglio. Mi avvicinai ad un uomo che mostrava tutti i sintomi dell’AIDS ma non potei fare altro che dargli un’aspirina. Lo lasciammo disperando per la sua sorte e con considerazioni sullo stato disastroso della sanità in Guinea.
Ci recammo un pomeriggio, accompagnati da un frate, padre Marco se ben ricordo, a trovare un missionario romano, don Paolo, in un villaggio sperduto nell’interno della foresta, Mansoa.
A metà strada ci dovemmo fermare a causa di un incendio che ci bloccò per circa un’ora; “succede spesso” ci dissero. Giunti a destinazione, in una costruzione in muratura ancora abitabile, residuo della colonizzazione portoghese e residenza del missionario cattolico, al primo piano e vicino alla finestra, una signora vestita di nero, ricoperta di punture di zanzara e segni di grattamento, colta di sorpresa dall’arrivo degli inattesi ospiti, ci accolse con un grande sorriso ed un caloroso abbraccio. Don Paolo non c’era; come al solito era in giro per la missione.
“Credevo di venire in vacanza e stare un po’ con mio figlio ma lo vedo pochissimo; l’unica compagnia sono le zanzare che mi stano massacrando”.
Ci presentammo come ospiti di padre Dionisio, impegnati in un progetto scolastico a Bissau, quasi tutti originari di un paesino di montagna del Molise, senza specificare altro; c’era il prete, il falegname, il meccanico, l’industriale ed il medico, che lavorava presso l’ospedale di Rieti. Con un lampo di gioia negli occhi mi puntò il dito contro dicendo: tu sei Vincenzino!
Fummo presi da un brivido improvviso; in un villaggio sperduto dell’Africa, nella foresta di uno dei Paesi più poveri del mondo eravamo venuti in contatto con una figura dai poteri speciali?
La spiegazione del mistero, frutto di una coincidenza di eventi fortuiti, fu presto svelata; la mamma di don Paolo, residente a Roma, era intima amica della signora Lina, zia di mia moglie. Entrambe vivevano nello stesso condominio e parlavano spesso delle persone a loro care; io stesso, pur non conoscendola, sapevo dell’amica della zia il cui giovanissimo figlio, don Paolo, era missionario in Africa.
La nostra presenza fu l’unica medicina di cui si poté giovare quel giorno la povera signora; seppi poi che dopo una decina di giorni fu costretta a rientrare in Italia e ricoverata al Policlinico di Roma con infezione della pelle, febbre ed insufficienza renale. Ne ebbe per un bel pezzo!
Gran parte del nostro soggiorno a Bissau, presso la missione di padre Dionisio, fu dedicata alla scuola, alle varie classi del Liceo, distribuite in cinque belle palazzine ed edificate grazie al notevole impegno, non solo finanziario, di Ermanno D’Andrea.
Il mio compito principale era quello di svolgere lezioni sulle norme igieniche, sul rischio di infezione da parte dei virus dell’epatite e dell’HIV e sulla loro prevenzione; tutti gli studenti si mostravano interessati e partecipi con interventi arguti e pertinenti, a dimostrazione di come fosse stata oculata la scelta d’intervenire innanzitutto sull’istruzione.
Ma quello che più mi ha colpito di quella visita e fatto temere per la mia sicurezza fu il giorno in cui eravamo lungo la strada, in attesa che passasse il corteo delle macchine del Presidente dittatore che all’epoca governava la Guinea Bissau. Stava per giungere l’automobile scoperta con l’uomo in divisa militare ornata di mostrine e medaglie con la gente disposta ai lati della strada; avevo la macchina fotografica a portata di mano e mi venne naturale prepararmi a scattare una foto.
Udii un gran vociare e poi delle urla; il frate che ci accompagnava mi si parò davanti, mi afferrò le braccia con forza gridando: “ma che fai, sei impazzito?” Rimasi quasi paralizzato, confuso ed incapace di capire cosa avessi fatto di grave; mi apprestavo in fondo a scattare una foto ricordo di un personaggio simbolo del Paese.
Mi fu spiegato che per molti del popolo, in Guinea, scattare una fotografia a qualcuno equivaleva al tentativo di furto dell’anima; il dittatore che stava passando mi avrebbe esposto alla rappresaglia del suo servizio di sicurezza anche se a rubargli, non solo l’anima, provvidero poi altri qualche anno dopo!
Ringraziai il sant’uomo per il veemente ma provvidenziale consiglio e desistei dall’idea di scattare fotografie a chicchessia; almeno per quel giorno. Due giorni dopo infatti, ben nascosto dietro un albero nella missione di cui eravamo ospiti, al passaggio della macchina del dittatore, scortata da ben otto motociclisti stile America, rubai due bellissime foto!
Partimmo dopo qualche giorno per fare ritorno in Italia, avendo nel cuore gli occhi bellissimi di tanti bambini e ragazzi con tanta voglia di imparare e di costruire un futuro migliore per sé e per il loro Paese; tornammo in Italia con il convincimento ancor più radicato che il progetto di solidarietà umana, perseguito attraverso l’istruzione e fortemente sostenuto da Ermanno, fosse la risposta giusta per un tale obiettivo.
Vincenzino Di Nardo
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