Vincenzo Di Nucci “la Madonna”
Correva l’anno di guerra 1917: al fronte sul Carso, un giovane contadino capracottese saltò su una mina che gli tranciò via una gamba ed un occhio. Si chiamava Vincenzo Di Nucci, classe di ferro 1897. Per il resto della sua vita fu da tutti chiamato “Vincenzo la Madonna” per aver svolto l’attività di custode del piccolo santuario della Madonna di Loreto all’ingresso del paese. Accudiva il santuario con scrupolo anche se il suo rapporto con il Padreterno non era sempre amichevole.
Alla sfera religiosa è legato un episodio della sua vita di militare, che a noi nipoti amava raccontare spesso, tanto gli era apparso assurdo. L’episodio più assurdo di tutta la sua vita. Era da tempo ricoverato all’ospedale militare del Celio a Roma dove gli fu riappiccicata una gamba di legno. Passava le giornate sulla branda in camerata, arrabbiato col mondo, pensando alle sue terre, ai raccolti, alle bestie, alla gamba che non c’era più, all’occhio che se n’era andato, e se la prendeva col primo che gli capitava a tiro, virtù che conservò scrupolosamente per il resto della sua vita.
Nella camerata ciondolava tutto il giorno un monaco portando parole di conforto che lui di rimando traduceva in bestemmie: al suo occhio superstite il Padreterno era responsabile della perdita della gamba non della salvezza dell’anima. Il monaco non reagiva, passava compassionevole oltre, poi tornava con le sue litanie ad aizzare le bestemmie del nonno. Ormai quel frate gli appariva quasi come una scheggia superstite della mina, e per di più incattivita, che gli scavava nella carne e lo sfotteva.
Col passare delle settimane però quel frate aveva cominciato ad intrigare la sua mente materiale di contadino. Aveva notato che il religioso tutte le sere, al momento del silenzio, si trascinava al fondo della camerata, si sedeva con la schiena appoggiata alla parete e restava in quella scomoda posizione per tutta la notte. Il nonno si arrovellò inutilmente a darsi una spiegazione. Da qualunque lato guardava quella stranezza non c’era modo di venirne a capo. Chiese ai commilitoni, ai medici, agli infermieri, ma tutti o ridacchiavano alzando le spalle o portavano una mano alla tempia per indicare che si trattava di un matto. Poteva bastare la spiegazione? Certo che no! Era contro la logica ferrea della mente contadina: ogni cosa che si fa deve avere il suo tornaconto!
Lo strano fenomeno si ripeté ogni sera per mesi. Un giorno, esasperato da quell’inspiegabile comportamento, fece cenno al monaco di avvicinarsi, e sottovoce gli pose brutalmente la questione che lo tormentava. “Perché non dormi come noi sulla branda?”. Il monaco allargò le braccia in un gesto pieno di devozione “Dormo in dormiveglia perché così sono certo che non mi dimentico di Dio!”. Per la capacità di comprensione del nonno fu troppo. Prese il monaco per un braccio e lo scaraventò a terra. Si era sentito insultato da una risposta che non aveva niente di materiale per cui valesse la pena sacrificarsi.
Ogni volta che ci raccontava quest’episodio prendeva a ridere, di una risata nervosa, quasi di rabbia. Non per il senso di ridicolo che la giustificazione strampalata del monaco ancora gli comunicava, ma per il dubbio che quel povero diavolo ci avesse creduto veramente. Gli sembrava, anche dopo mezzo secolo, del tutto insopportabile.
Nicola Di Tanna