Rappresentazione grafica del coronavirus SARS-CoV-2
Ripensando, ormai da vecchio, alla mia professione di medico ospedaliero, confesso di aver ceduto un po’ anch’io a quella che considero la tentazione più pericolosa dell’uomo: la diabolica chimera, cioè di considerarsi pressoché onnipotente.
E non è mancata certo, come comprensibile attenuante per la mia generazione, l’aver vissuto con giovanile entusiasmo l‘esaltante stagione del ’68 (anno della mia laurea); non è superfluo sottolineare il grande impulso alle nostre illusioni che ci era derivato dagli avvenimenti e dai grandi progressi di quel periodo: ad esempio, già precedentemente alla conquista della luna del 1969, il primo trapianto cardiaco del 1967 ed il primo astronauta in orbita del 1961; ricorrendo anzi, proprio in questi giorni, l’anniversario di questa impresa, mi è tornato in mente un mio tema del liceo classico proprio su questo storico avvenimento: avevo davvero superato me stesso in uno sfrenato “delirio” di fantasia e di grandiosi prospettive che fecero sorridere anche il mio caro professore di Italiano.
Ma, come nel titolo di un vecchio film sulla rivoluzione ungherese del 1956, …” i sogni muoiono all’alba” ed i successivi decenni infatti, come tutti sappiamo, mi hanno e ci hanno purtroppo riportato… “con i piedi sulla terra”.
Tutto ciò è stato ancor più negativo considerando l’assurda pretesa, per molti, di aver ormai sconfitto tante malattie ed in particolare la maggior parte di quelle infettive: settore in cui pure erano stati conseguiti incredibili risultati negli ultimi decenni.
Una tentazione ancor più insidiosa in cui siamo caduti è stata poi quella di pensare che le emergenze di qualsiasi natura, in particolare quelle di carattere sanitario, riguardino sempre e solo persone lontanissime da noi: come del resto è accaduto all’inizio dell’epidemia da COVID 19, tuttora tremendamente in corso e che ci siamo illusi rimanesse relegata in territorio cinese.
Restando in argomento, mi torna in mente la famosa espressione di un simpatico personaggio capracottese di cui mi sfugge il nome che, emigrato e da tempo lontano dal nostro paese, fece di tutto per rifugiarvisi nel 1943, subito prima della sua distruzione durante l’ultimo conflitto mondiale; ebbe così lo sconforto di vedere la sua abitazione fatta saltare con l’esplosivo dalle truppe tedesche ed esclamò con tragicomica ironia: “tutto potevo pensare tranne che la guerra, dall’Africa e dal mondo, raggiungesse persino il tetto della mia vecchia casa a Capracotta!”
Ed appare quanto mai istruttivo per tutti noi, pur costretti a pagare un prezzo altissimo, l’insegnamento che la pandemia in atto ci fornisce e di cui pure, in tanti, sembrano negare la stessa evidenza; a tale proposito mi hanno molto impressionato le parole quanto mai profetiche di David Quammen sul suo, già famoso libro di alcuni anni fa’, che si intitola “Spillover”: è dedicato alla storia delle malattie infettive ma, in particolare, alle cosiddette “zoonosi” in cui un agente patogeno che colpisce gli animali anche selvatici, da un momento all’altro, imprevedibilmente, può fare un “salto di specie”, uno “spillover” appunto, nell’uomo.
Questo illuminato autore si spinge a dire testualmente: “Ecco a cosa sono utili le zoonosi: ci ricordano, come versioni moderne di San Francesco, (ma ora basterebbe ascoltare il santo Padre Papa Francesco) che in quanto esseri umani, siamo parte della natura, e che la stessa idea di un mondo naturale distinto da noi è sbagliata e artificiale. C’è un mondo solo, di cui l’umanità fa’ parte, così come i virus HIV, di “Ebola” e dell’influenza, e la SARS, gli scimpanzè, i pipistrelli, gli zibetti o le oche indiane.
E ne fa’ parte anche il prossimo virus killer che ci colpirà, quello che ancora non abbiamo scoperto”
(e che ora si è manifestato nelle sembianze del COVID 19).
Per tornare alla nostra attualità ed in particolare all’impatto certamente abbastanza grave della pandemia su Capracotta ed i suoi cittadini residenti, è stato spontaneo per me un ideale confronto con altre malattie infettive del passato di cui forse abbiamo smarrito il ricordo: ad esempio la tristemente famosa virosi influenzale, impropriamente denominata “febbre spagnola” di circa un secolo fa, cui ha fatto seguito una seconda ed altrettanto letale malattia definita “encefalite letargica”; era provocata da un virus “di sortita” tuttora in parte sconosciuto, ma certamente correlata e sovrapposta alla citata pandemia; tra l’altro e purtroppo, anche mio nonno materno, di cui porto il nome pur non avendolo conosciuto, è morto per aver contratto questa tremenda malattia neurologica.
Per Capracotta tuttavia, il confronto più emblematico è senza dubbio quello con l’antica pandemia di “Peste” del 1656: di cui ho riletto in questi giorni la storia nel volume, ad essa dedicato, dalla nostra associazione “Amici di Capracotta”; ed è davvero impressionante il conteggio delle persone decedute per questa contagiosissima malattia di origine batterica in soli 40 giorni circa: ben 1126 su circa 2000 residenti dell’epoca.
Appare evidente come il bilancio complessivo di allora fosse ben più drammatico di quello provocato ora dal COVID 19, ma possiamo immaginare lo stato d’animo dei pochi sopravvissuti; non credo fosse meno sconvolgente, nel 1656, vedersi costretti ad ammassare i tanti cadaveri in “ECCLESIA MATRICI”, cioè negli anfratti rocciosi sottostanti il pavimento della Chiesa piuttosto che osservarne il trasporto con tante bare, caricate senza alcun funerale, su automezzi militari. S’intende, nell’identico rispetto e con lo stesso dolore per la perdita, allora come oggi, di tante persone care in così breve tempo: è stato ed è certamente molto grande l’angoscia per la scomparsa di diversi tra gli amici colpiti dalla SARS-Cov-2.
Mi ha molto impressionato, inoltre, il confronto tra la suggestiva simbologia numerologica a sfondo religioso del 1656, che assimilerebbe i 40 giorni dell’epidemia a Capracotta con i 40 giorni di Gesù nel deserto, e quella più scientifica dei nostri giorni: ad esempio gli ormai famosi fattori di contagiosità, di letalità e tanti altri moderni indicatori matematici.
Appare poi davvero incredibile che a Capracotta, nel 1656 e sia pure nel tremendo clima di quella calamità, siano sati diligentemente trascritti tutti i nomi delle persone scomparse con pietose annotazioni sulla loro sepoltura, sui Sacramenti ricevuti e quant’altro: un ammirevole gesto di civiltà e di abnegazione di cui dovremmo tuttora essere riconoscenti ai nostri antenati, così come è doveroso che lo siamo adesso con gli “angeli dei nostri giorni”.
A tale proposito stentiamo ancora a credere che, a beneficio della collettività, abbiano persino immolato la loro vita tanti colleghi medici, tanti infermieri e moltissime altre persone nei più diversi ruoli o addirittura volontari.
Avviandomi alla conclusione, mi piace ritornare alle parole testuali di David Quammen, che appare quasi preoccupato di non essere riuscito ad essere abbastanza convincente nel suo bellissimo volume “SPILLOVER”:
E non ho detto tutto ciò allo scopo di angosciarvi o deprimervi. Non ho scritto questo libro per spaventare il pubblico, ma per renderlo più consapevole. Ecco cosa distingue gli esseri umani per esempio dai bruchi: noi, al contrario di loro, possiamo fare mosse intelligenti.”
E sarebbe davvero augurabile che tutte le persone, specie quelle che amano apparire anticonformiste lasciandosi definire “No-VAX” riuscissero a leggere questo libro, appassionante come un romanzo, ma denso di assoluta ed incontrovertibile verità.
In ogni caso, facendo voti che davvero cominci a prevalere la fiducia sullo sconforto, sono certo che, ancora una volta, Capracotta ed i suoi attuali cittadini, numericamente pressoché uguali ai sopravvissuti del 1656, vedano accresciute a dismisura le loro capacità di recupero o, come ora si dice, di “resilienza”: come del resto è sempre storicamente accaduto.
Mi piace, tra l’altro, ricordare che mia madre Cesarina concludeva il suo racconto sulla distruzione bellica di Capracotta testimoniando che, “in brevissimo tempo, l’alacre operosità dei capracottesi aveva fatto sì che il paese ritornasse ad essere più bello e “ridente” di prima”; e nulla vieta, ce lo possiamo augurare di cuore, che ci vengano in aiuto le attuali, forti esigenze di ricondizionamento morale, socio-economico e culturale: non disgiunte, nel commosso ricordo delle pandemie, dal recupero di quella straordinaria solidarietà che è stata sempre il “tesoro più grande” di Capracotta ed in aggiunta all’ invidiabile salubrità del suo ambiente umano e naturale.
Aldo Trotta