Un paese del sud, una poesia di don Geremia Carugno

Da sinistra Don Geremia, don Alberto Conti e don Cesario Ronzitti il 26 ottobre 1976, giorno dell'“Ammissione” di don Alberto nella Cattedrale di Trivento.

Da sinistra Don Geremia, don Alberto Conti e don Cesario Ronzitti il 26 ottobre 1976, giorno dell’“Ammissione” di don Alberto nella Cattedrale di Trivento

Ho ritrovato, fra i miei libri, una pubblicazione del caro e indimenticabile don Geremia Carugno, parroco a Capracotta per oltre 30 anni.
Don Geremia scriveva le sue poesie nelle lunghe notti invernali, quando a Capracotta, la neve e la bufera fanno sentire più aspra la solitudine, la paura ti assale e ti entra nella vita. Don Geremia, solo nella sua casa canonica, attigua alla maestosa Chiesa Madre di Capracotta, superava il suo deserto con la preghiera che spesso traduceva in versi, pensando a chi viveva nel dolore e nella solitudine.
Come succede spesso il “valore” di un uomo lo si scopre solo dopo la morte. Don Geremia è morto il 28 agosto del 2007 dopo una lunga malattia. Credo che sia giunto il tempo di ricordarlo con la giusta misura che si deve a un Poeta. Per questo vi invierò uno alla volta i suoi versi pubblicati nel 1981 e raccolti nell’opuscolo dal titolo “Le rose di Gerico”.
È un modo non solo per ricordare il mio parroco, l’arciprete di Capracotta, ma anche per non dimenticare tutti i popoli che vivono nella sofferenza; infatti i versi sono stati scritti per il Terremoto del Sud nel 1980. Nei nostri giorni altri terremoti hanno portato morte, dolore e distruzione. “Non lasciamoli soli!”.

 

Don Alberto Conti

Gustate la bellezza e la profondità della prima poesia:

UN PAESE DEL SUD

Ora so perché
quella coltre di campi da arare
seminata di pali di bidenti e zappe
lasciati all’aria
nella pausa di colazione all’ombra
mi parve il volto di un camposanto.

– Se il paese era scarno
invecchiato come un convento
quei pali sapevano il numero
della gente viva –

Come a un cenno infatti
la distesa si animò di figure
femminee tutte
lente stanche vaghe
come fantasmi
e le braccia rotearono rapide
le lame che affrettavano le zolle
con una lena che sapeva di fretta
e di richiamo

Ora sulla via che portava
ai casolari vuoti
ogni gonna trascinava un pianto
e un lamento
e tante braccia cullavano un vagito

e i pali delle zappe e dei bidenti
all’aria sulle spalle
mi davano l’idea delle croci
croci che in quel paese del Sud
attendono le braccia dei cirenei.

Così scrive l’arciprete, nominato poi Monsignore, nella prefazione dell’opuscolo:
“Lungamente pensati e scritti nei giorni che accompagnarono e seguirono il Terremoto del Sud – 23 novembre 1980 ore 19,37 – questi versi volevano e vogliono essere una risposta all’appello di allora: non lasciamoli soli!
La semplice e breve cronaca di una storia amara – come quella del Belice e del Friuli -, è perciò, un invito, a distanza di un anno dalla tragedia, a incontrare spiritualmente quei fratelli ai quali, per conto nostro, ci lega più che la dorsale geografica, l’identità di costumi, di cultura e di storia umana.
Le località colpite dal terremoto citate nelle poesie sono solo il simbolo della sventura toccata all’Irpinia e alla Campania, come lo sono episodi, frasi e personaggi che fanno la trama delle composizioni”.

23 novembre 1981

Fonte: Diocesi di Trivento.it