Era della famiglia “dɘ ‘r pusctiérɘ” (dei postini) il cui capostipite era Giacomo Iacovone che aveva sposato Concetta Mosca, per noi “mamma Concetta”.
Giuseppe (Peppe), primo dei figli, era stato postino a Capracotta e poi a Tivoli.
Livia invece dopo il matrimonio si era trasferita a Vetralla.
Nicola (Cola), autista di autocorriere a Capracotta, trasferito a Tivoli fu poi uomo di fiducia e tuttofare a casa del noto sarto capracottese Gaetanino Terreri, a Roma.
Ermando (Manduccio, per la sua bassa statura) fu, dopo Peppe, anch’egli postino a Capracotta.
Remo invece, trasferito a Tivoli, fu falegname presso una nota bottega romana e poi in proprio.
Antonia (Pupetta), sposò il sarto Mario Di Tanna il quale a Parigi, coadiuvato dalla moglie, ebbe tra i suoi clienti illustri personaggi della politica francese.
Sebastiano (Pupɘttónɘ, per la sua statura), postino a Capracotta e poi a S. Pietro Avellana, si trasferì dopo il matrimonio a Castel di Sangro.
Manduccio, nato nel 1922, fra tutti fu quello che trascorse più anni a Capracotta, in compagnia della madre, dopo la cui morte restò da solo.
Consegnare la posta in un paese di alta montagna, col freddo e la neve, non era certo una villeggiatura; il rientro a casa poi, dove non c’era nessuno ad aspettarlo e che gli facesse trovare un piatto caldo, non gli rendeva certo la vita facile.
Si trasferì perciò anch’egli a Tivoli.
Non aveva un carattere molto espansivo; osservava, parlava poco, ma quando apriva bocca si limitava ai fatti e spesso le sue battute lasciavano il segno.
Un’estate di tanti anni fa, con il paese pieno di gente e le serate in piazza, in occasione di una delle tante feste e prima della fine delle vacanze, sul palco si cantava una canzone che all’epoca era di gran moda, scritta da Mario Di Tanna: “zɘ n’éma ‘ì, z’éma lassà…. paesɘ chiù biégliɘ ar munnɘ ‘ncɘ ʃctà” (Dobbiamo ripartire, ci dobbiamo lasciare …. paese più bello al mondo non c’è).
Per chi già vedeva arrivare un’altra stagione di freddo e solitudine quel canto metteva tristezza, sapeva di retorica.
Manduccio era appoggiato allo stipite del portone dell’ufficio postale (all’epoca era in piazza, dove ora c’è la farmacia); aveva nell’ingombrante borsone della posta, già pronte per la consegna, diverse buste con avvisi di cambiali e pagamenti in scadenza.
Finita l’ultima strofa “paesɘ chiù biégliɘ ar munnɘ ‘ncɘ ʃctà” chi gli stava vicino sentì distintamente il suo sarcastico commento: “nɘ’n facétɘ ‘r fɘluosɘfɘ, iétɘ a pahà” (Non fate i filosofi, andate a pagare!).
Manduccio ci ha lasciato in silenzio, in punta di piedi; fu trovato la mattina del 9 ottobre 1989 nel suo letto, addormentato per sempre.
Vincenzino Di Nardo