Sul filo della memoria: San Rocco

Il 21 dicembre 2021 ricorre il centenario della nascita del maestro Minguccio (Domenico) D’Andrea. Persona riservata, schiva, rispettosa; calmo nei gesti, moderato nel tono della voce e con un aperto sorriso, era un piacevole conversatore. Passeggiava per le strade di Capracotta e si fermava volentieri a chiacchierare con i vegliardi del posto. I suoi ricordi e le sue memorie sono stati pubblicati dal nipote Ermanno D’Andrea nel volume “Sul filo della memoria” affinché quei fatti, quei luoghi e quelle persone della Capracotta del passato non cadessero nell’oblio ma venissero raccontati ai tanti lettori, soprattutto giovani, talora ignari delle proprie radici. Nell’anno del centenario della nascita, vogliamo anche noi dare un nostro contributo al ricordo di un personaggio che è rimasto nei cuori di tutti coloro che l’hanno conosciuto e, grazie alla disponibilità di Ermanno e degli amici che hanno contribuito alla realizzazione dell’opera, pubblicheremo sul nostro sito i testi con gli schizzi originali di questo meraviglioso viaggio nella Capracotta che fu… sul filo della memoria.

In quegli anni San Rocco era un po’ malandato. Giù per la via, a ridosso dei muretti degli orti, c’erano sempre cumuli d’immondizie, che quelli di “sopra alla Chiesa” venivano a scaricare a tarda sera e qualche volta anche di giorno.

I ragazzi, ignari, si trastullavano su e giù per la ripida discesa sollevando nuvoli di polvere. Per una buona ripulitura, si doveva aspettare gli acquazzoni estivi e le piogge d’autunno.

 

Gente di San Rocco

Ma come era vivo allora San Rocco!

All’alba, se eri sveglio, sentivi le voci di quelli sotto a zi Curdisk, già in piedi e pronti per recarsi al lavoro noi campi.

Se ti affacciavi, vedevi il vecchio zi Loreto muoversi svelto, davanti a casa, curvo, quasi prono, piegato così -dicevano- dalla dura fatica, forse più verosimilmente dall’artrosi. Non si concedeva riposo. Un po’ di tregua solo quando, rimesso a nuovo, andava in pellegrinaggio alla Madonna di Casalbordino.

Di primo mattino la via si animava, specie nei giorni d’estate, quando ferveva il lavoro dei campi. Scendevano con gli asini coloro che andavano in campagna o che portavano il grano al mulino vecchio. Si udiva il battere secco degli zoccoli ferrati sui selci sconnessi del primo tratto di strada a scalinata.

Prima che il sole si affacciasse radioso da Monte Campo, il cielo si riempiva di rondini. L’aria era piena delle loro strida. Seguivi il loro svolio interminabile, assorbendoti tutto in quel brulichio sotto l’azzurro.

 

Il mulino vecchio; Zi Vincenzino

Intanto nelle botteghe dei falegnami strepivano le seghe. Dal mulino vecchio veniva il rombo sordo e cupo delle macine.

Zi Vincenzino Buonanotte era al lavoro. Davanti al mulino c’era già qualche somaro, legato alla catenella al muro.

Zi Vincenzino era spesso il bersaglio degli scherzi infantili. Mentre lui era intento a macinare, i monelli della Via Nuova gli buttavano i sassi nel locale e poi correvano a nascondersi nelle stalle. Lui fermava le macchine, se poteva, e, ancora avvolto in una nube di candida farina, correva sulla soglia e tentava anche qualche passo fuori. Ma era impressione generale che facesse così per puro dovere più che per impartire una lezione ai piccoli impertinenti: nella sua imperturbabile calma non c’era posto per le rivalse, specie infantili.

Dietro al mulino c’era la cabina elettrica, regno di Buccitto.

Naturalmente si tentava anche con lui qualche approccio scherzoso per avere accesso nel suo campo, ma Buccitto da quell’orecchio non ci sentiva: si trattava di sega elettrica e c’era poco da scherzare. Per altre cose, così pieno di spirito come era, lo trovavi sempre disponibile.

 

Ciacià

La sera San Rocco si rianimava. Risaliva gente dalla campagna, rotta dalle fatiche. Che sgroppata quella salita!

Ecco il buon Ciacià, che arranca con la zappa sulle povere spalle cadenti. I ragazzi si divertivano a rifargli il verso: cià… cià… cià…! Lui faceva finta di arrabbiarsi: di fare sul serio non ne aveva la forza, stanco morto com’era, nè la voglia, impastato com’era d’innata mansuetudine.

 

Le lavandaie

Ritornavano le donne che erano andate a lavare i panni giù, alle fredde sorgenti del Verrino. Sfinite, con i canestri ricolmi di panni asciutti sul capo, salivano ansanti. Ma la loro faticosa giornata non era ancora conchiusa: c’era la cena da preparare, la magra cena.

 

Muccio

Ma ecco zi Giacomo, detto Muccio, famoso per le bisticciate giovanili coi carabinieri, dopo le corpose bevute festive nelle cantine, che finivano, se era vero quel che si diceva, sempre a suon di botte. Viene dalla masseria. Sale stanco, ma è sempre in gamba. Si ferma a parlare con questo e con quello, di raccolto, di semina, di annate, di animali. Sputa anche, grave e calmo, qualche sentenza: crede di averne ben diritto, ricco com’è di esperienza.

D’inverno veniva ad ammazzare il maiale, armato di uncino e coltelli. Durante le operazioni, che si svolgevano con ritmo lento e misurato come un rito, Muccio narrava qualche suo trascorso burrascoso, ascoltato con interesse da tutti, anche dai bambini. Se richiesto, raccontava anche, tra la divertita attenzione degli astanti, con una punta di sussiego, come una volta, parlando con l’Arciprete, avesse spiegato a modo suo il significato del segno della Croce. Bonaria saccenteria!

 

L’Arciprete

Passava qualche volta don Leopoldo, che si recava all’orto, lì alle prime case. Si fermava a parlare con qualcuno, bonario, affettuoso, con quella sua voce sottile e cordiale.

I ragazzi gli correvano incontro per fargli festa, ma, sempre in vena di divertirsi, senza rischi, alle spalle degli altri, non risparmiavano neppure lui. Quando era ben lontano, gli gridavano, chiamandolo con un soprannome venuto fuori chissà da dove: Cipollì, Cipollì…! Lui tentennava il capo, desolato.

 

Nei prati di Conti

Nelle tiepide giornate di primavera, i ragazzi sciamavano per i prati di Conti. Andavano in cerca di erbe commestibili, i “ciammarlotti” e, più ambiti, i “selvaggi”. Chini sull’erba fresca e profumata, facevano a gara a chi ne trovasse di più. Poi andavano alla fonte, sotto a zi Carminone, per lavarli e mangiarli, se non li avevano già mangiati durante la raccolta. Seduti intorno alla pila dell’acqua, rivestita di borracina, mentre si rimpinzavano, tenevano d’occhio, con un po’ di apprensione, le mucche, che si avvicinavano lente per l’abbeverata.

A sera tornavano a casa con la bocca e le mani verdi, le tasche gonfie e le toppe ai ginocchi.

Qualche volta si spingevano fino ai prati di Cesare, sopra alle Croci, in cerca di altre specialità mangerecce, dal sapore asprigno, ma non era il loro regno, quello.

 

Temporali estivi

Durante i temporali estivi si stava coi visi incollati ai vetri delle finestre, in attesa del sereno.

I grossi rivoli d’acqua precipitavano, rapidi e torbidi, giù per San Rocco, suscitando sensi di gioioso stupore.

Nell’orticello dell’Arciprete, quello sotto casa, all’inizio della via, c’erano due grandi alberi: un noce frondoso che spandeva i suoi rami fin sopra alla Via Nuova e un cerro che svettava maestoso fin sopra i tetti delle case. Il vento infuriava e li sferzava violentemente, agitando e scompigliando le loro chiome, ma essi, placatosi il vento, le ricomponevano in fretta frusciando piano, senza mostrare segni di offesa addosso. Quando Giustino li abbatté per ricavarne legna o spazio, San Rocco divenne più triste e più povero. Per i ragazzi, che avevano sui loro rami la loro aerea dimora, fu un duro colpo.

 

Notti d’estate

Nelle notti estive di festa da sotto a zi Loreto e da Fonte Giù salivano le allegre note di canti paesani, accompagnate dal suono dell’organetto. Uscivano grandi e piccoli e si trattenevano fino a tardi, chiacchierando sui sedili di pietra. Le notti erano calde e limpide e, sopra, c’era un cielo stellato puro, che infondeva tanta pace. Sullo sfondo, a sudovest, si stagliava netto, bruno, il profilo familiare di Monte Capraro. Lontano abbaiavano i cani.

 

Inverno

D’inverno la neve ammantava tutto di bianco e copriva pietosamente anche le piaghe di San Rocco, i cumuli di rifiuto, appunto. I rumori si attutivano. Ciacià non scendeva. In alto pigolava solo qualche passero. Il cerro spilungone si scrollava la neve di dosso, buttandola anche sui passanti. Dalle grondaie, che in estate avevano ospitato le amiche rondini, pendevano grossi ghiaccioli, duri a sciogliersi, perenne minaccia per i poveri passanti. I comignoli fumavano tutto il giorno. I ragazzi sciavano, per San Rocco fino a Fonte Giù, sotto a zi Mingo, con i loro sci posticci, legati alle scarpe con cinghie rimediate, che si spezzavano letteralmente ad ogni piè sospinto. Don Checchino, a cui ricorrevano, borbottando dava loro pietosamente qualche cinghia di ricambio.

Zi Vincenzino Buonanotte macinava di meno e finalmente nessuno lo molestava.

 

La tormenta

Quando infuriava la tormenta, si restava ovviamente chiusi in casa, disperazione delle donne. Stanchi di giochi e di sgridate, ci si incollava ai vetri e si guardava, con quello stupore attonito proprio dei bambini di fronte allo spettacolo della natura in furie, la neve che turbinava violentemente.

Si sentiva il fischio della bufera, che, in un crescendo continuo d’intensità, finiva in un lungo profondo ululato; poi decresceva e si stemperava in una sorta di grosso respiro. La sera, al lume delle lucerne, che fumigavano sul camino – la luce elettrica di solito se ne andava -, ci si riuniva accanto al fuoco nella speranza di sentire o di risentire qualche vecchia fiaba. Si udiva su per la canna fumaria il risucchio del vento, che mugghiava paurosamente: poi una grande riboccata e zaffate di fumo acre t’investivano in pieno.

La mattina dalle fessure delle imposte filtrava una luce scialba e stanca. La bufera ruggiva ancora. Folate di vento gelido, ora più ora meno rabbiose, frustavano sibilando i vetri, scuotendoli furiosamente negli infissi e imbiancandoli con uno spolverio di neve granulosa. Levandoti, trovavi sui vetri incredibili intrecci di arabeschi formati dal gelo. Grattavi un po’ di ghiaccio e guardavi fuori: in mezzo al turbinio dei fiocchi, nelle pause dei vortici, si scorgevano grossi cumuli di neve, frastagliati in cima come creste; qualche albero che, simile ad un bianco fantasma, agitava i rami, le case con i tetti incappucciati e le finestre con i davanzali esterni ricolmi di neve e i vetri imbiancati, che sembravano tanti occhi attoniti. In mezzo al turbine, la sagoma barcollante di un passante avvoltolato fino alla testa nel pesante e lungo cappotto a ruota, che il vento gonfiava. Poi finalmente la tempesta si placava. Le schiarite si facevano sempre più frequenti e su quell’universo immerso nel bianco tornava a splendere il sole. La gente usciva, dopo essersi aperta una via, spalando la neve accumulata davanti agli usci.

Come è ovvio, questi fenomeni sono noti a tutti coloro che passano l’inverno in paese. Forse la loro descrizione così come è stata resa, può significare qualcosa solo se si ripensano i sentimenti che essi generano e che si è cercato di esprimere, così tra le righe.

Domenico D’Andrea

Sul filo della Memoria, pagg. 8 – 12