La Via Nuova allora era tutto fango e breccia, con dei solchi carrai profondi, che quando pioveva si riempivano di acqua, formando grosse pozzanghere. In esse sguazzavano i ragazzi, godendosela un mondo.
Le case erano quasi tutte di aspetto modesto, ma dignitose: alcune con la facciata a bolognini. Ai bordi della via, addossati al vecchio muro sbrecciato dell’orto di Tabanella e davanti a Triiano, c’era sempre qualche carretto con le grandi ruote fermate da grossi sassi e le stanghe rivolte al cielo. A sera c’era sempre un grappolo di ragazzi vocianti appeso ai raggi delle ruote e alle stanghe.
Il carretto re della strada
Il carretto era il re della strada. Passavano e ripassavano i “traini” dalla mattina alla sera, carichi di mercanzia. Qualche volta, nel tardo pomeriggio, arrivava con fragore di ruote e tinnire di sonagli, veloce, traballante, il carretto di Scarcione, trainato da cavallo e bilancino. Alla guida uno dei figli, ritto in piedi, pettoruto, a gambe divaricate, che incitava i cavalli con la frusta.
I ragazzi lasciavano di giocare e seguivano con lo sguardo, ammirati, l’intrepido vetturale fino a quando, alla svolta di Giorgetto, non scompariva alla vista.
Fiore il capraio
Di primo mattino passava Fiore il capraio per rilevare le capre e menarle al pascolo, giù alla Difesa o più su al Piano delle Grotte, alle pendici delle coste della Rochetta.
La convivenza con gli animali e la lunga permanenza quotidiana in campagna gli avevano conferito un non so che di silvano nell’aspetto, ma sotto quella scorza ruvida e scontrosa c’era tanta semplicità d’animo.
Si annunciava suonando il corno. Le capre uscivano dalle stalle e si univano al branco.
Se tardavano Fiore chiamava le padrone, infilzando i loro nomi, uno di seguito all’altro, come i grani del rosario: Giacinta Pulcheria Annina Bambina…!
Vento, sole, pioggia, il buon Fiore passava sempre, con il bastone, il corno e la bisaccia con la colazione: pane e una crosta di formaggio secca; per bevanda: acqua fresca di fonte campestre.
Zimba
Si chiamava Sinforosa, ma tutti, storpiando il suo bel nome, che sapeva di musica e di fiori, la chiamavano Zimba.
Il marito, zi Sebastiano, lo chiamavano Bandista.
Abitavano sotto alla Via Nuova, tra la casa dell’Arciprete e quella di don Leonardo. Che onore per Zimba…!
Tutti e due erano avanti negli anni.
Campagna o casa, con qualche puntata in chiesa per la messa, quando possibile. Un giorno al Pischeto per sarchiare il grano in quel benedetto terreno sempre pieno di sassi, che più ne toglievi, più aumentavano; un altro giorno a Santa Croce a battere il farchio; un altro al Fossato a raccogliere il fieno.
Questa la loro vita.
Stava venendo l’inverno. Il lavoro dei campi era sospeso.
Zimba e Bandista una mattina di fine novembre misero il basto all’asino e scesero per San Rocco, diretti ad Agnone. Volevano comprare un maialetto, che avrebbero allevato durante l’inverno. Sinforosa per la verità era un po’ inquieta perché si era alla “incrociatura” dei mesi. Faceva freddo, il cielo era velato. Arrivarono a destinazione prima di mezzogiorno e subito si misero in giro per le masserie in cerca del maiale. Combinarono, consumarono una parca colazione e ripresero la via del ritorno.
Cominciò a piovigginare. Scesero al Vallone del Cerro e presero a salire verso la Macchia. La pioggia insisteva, il freddo penetrava nelle ossa. Stava scendendo la sera e allora decisero di passare la notte a Macchia, alla masseria di un conoscente.
La mattina dopo, di buon’ora, si rimisero in viaggio, nonostante il parere contrario degli ospiti, ai quali per ogni buon fine avevano lasciato in custodia il maiale. Avevano il pensiero delle bestie, delle due capre in particolare, rimaste incustodite nella stalletta.
Il tempo andava peggiorando. La temperatura era scesa e da Sant’Onofrio soffiava un vento teso, infido. Grossi nuvoloni si addensavano minacciosi sul Colle di San Nicola. Mentre procedono dietro all’asinello su per la scoscesa mulattiera, cominciano a cadere di traverso spruzzate di pioggia mista a neve. Superano il Passo della Regina. Al Precorio, dove la mulattiera si biforca, si decidono per la via di sopra, quella che passa sotto alla Fonte fredda, alle Macerie. Fanno questa scelta per evitare di impantanarsi con tutta quell’acqua, alla Lamatura e forse anche perché sperano di essere più al riparo.
Il tempo incrudelisce. Turbini di neve investono i due vecchi viandanti. I panni fradici gli si ghiacciano addosso e stringono in una morsa di gelo i loro corpi già intirizziti. Arrancano dietro all’asino, sfiniti.
Sono finalmente sopra alla Lamatura. Intravedono nello spolverio il casone di Potena. Il cuore si riapre alla speranza: forse è la salvezza! Troppo tardi: sono allo stremo delle forze, assiderati dal gelo. Si lasciano cadere, presso un muretto, a qualche centinaio di metri dalle prime case, forse nel tentativo disperato di cercarvi un riparo. Non si rialzeranno più. Costantino di Bonafede, che era stato al mulino a macinare, sulla via del ritorno alla masseria, li trova lì, vicini all’asino, vivo, che ha un grumo di ghiaccio sulla fronte e intorno agli occhi e il pelame raggelato.
A bocce
A primavera, nelle prime ore del pomeriggio, prima della ripresa del lavoro, la Via Nuova diventava campo di bocce per gli improvvisati bocciofili della zona.
Giocando, arrivavano sotto a don Leonardo e poi tornavano indietro fino all’orto di Nocente. Le buche, i sassi e le altre asperità erano per loro come tanti zuccherini. Si cimentavano in gare puntigliose quanto mai. Raramente bocciavano e se lo facevano, colpivano sempre la palla sbagliata. Facevano un chiasso indiavolato, canzonandosi a vicenda, tra la piccola marmaglia, che tifava plaudente per l’una o per l’altra squadra.
Zi Colitto
Zi Colitto aveva la sua bottega sulla Via Nuova.
Nel suo piccolo laboratorio tutto era funzionale: dei ripiani per gli arnesi di lavoro, ai cassetti per i chiodi e le viti, alla porta a vetri che dava sulla strada, fornita di apposite cerniere ed altri aggeggi, inventati da lui, per l’apertura e la chiusura automatica degli scuri e delle controvetrine.
Aveva fama d’inventore e in effetti lo era. Al tempo cui ci si riferisce con la presente narrazione, costruì una carrozza di legno semiautomatica, fornita di ingranaggi e di un sistema di leve, azionando le quali essa si metteva in moto e correva su e giù per la Via Nuova. Tutti volevano provare a manovrarla. I ragazzi se la sognavano la notte.
Durante la prima guerra mondiale, al fronte, inventò una mangiatoia smontabile, di grande praticità, che fu adottata subito dalle salmerie.
Ecco come andarono le cose, secondo il racconto che ne faceva lui stesso, con aria divertita, confermato dal fratello, che condivise con lui, per un breve periodo, le fatiche del fronte a Palazzolo della Stella.
Zi Colitto era capo reparto in una falegnameria militare nella località su ricordata. Un giorno lo chiamò il comandante del battaglione e gli ordinò di fare un esemplare di mangiatoia smontabile per le salmerie e gli mostrò il modello a cui si doveva attenere. Zi Colitto osservò il modello attentamente, poi si rivolse al comandante e gli disse: Signor Maggiore, questa mangiatoia è ingombrante e poco maneggevole: si perderà tempo per montarla e smontarla.
“Questa si ch’è bella!” Esclamò il maggiore, sorpreso e indispettito; “poco maneggevole… ingombrante…! Falla tu una migliore, se sei capace…!”
“Sono pronto”, disse zi Colitto.
“Caporale, quando ripasserò, fra qualche giorno, mi farai trovare il tuo bel campione di mangiatoia smontabile. Intesi?”
Zi Colitto si mise subito all’opera. L’idea della sua mangiatoia ce l’aveva già in mente: gli era sorta, osservando il modello del maggiore.
In un paio di giorni, lavorando con impegno, con l’aiuto di un commilitone fabbro per le parti metalliche, costruì il campione.
Ingrassò le cerniere e attese il comandante di battaglione.
“Caporale, vediamo questa mangiatoia…!”
Il caporale Colitto con pochi rapidi gesti: trac… trac… smontò la mangiatoia; trac… trac… la rimontò con altrettanta rapidità.
Provò anche il maggiore: trac… trac…; trac… trac…
Con il volto spianato ad un sorriso di grande soddisfazione, il comandante, alla presenza dei soldati, che avevano fatto cerchio, si rivolse a zi Colitto e gli disse: “Caporale, una licenza premio, subito, e una proposta di promozione al grado superiore”.
Qui finisce il racconto della mangiatoia di guerra. Torniamo alla bottega. Nel cassetto sotto il banco c’era il Canzoniere del Petrarca, il poeta prediletto. Scriveva anche lui poesie, quasi sempre di notte, nei momenti di veglia, al buio, servendosi di foglietti predisposti; forniti di una specie di guida mobile per la matita, di sua invenzione. In quei tempi era in voga l’ultima sua poesia: “La regina del villaggio”, le cui strofe erano declamate anche dai ragazzi.
Faceva anche il fotografo. Qualche reclamo in proposito: “Zi Culì, come m’hai fatta vecchia…!”. “È colpa della macchina: un po’ di ritocco e ritorni più giovane di prima”. Era un accanito lettore e gli piaceva commentare con qualcuno ciò che leggeva. Negli ultimi anni, passando davanti alla sua bottega, lo vedevi seduto accanto al banco, intento a leggere. Qualche volta lo sorprendevi assopito, con la testa reclinata sul libro posato sul banco, che ormai era solo il suo leggio.
Don Leonardo
Più giù, andando verso il Fontanino (che oggi, coperto di ruggine, fa bella mostra di sé a ridosso del muraglione eretto sotto al mercato), abitava don Leonardo nella sua bella casa con la facciata a bolognini e le finestre e il portone di pietra grigia di Monteforte. Il terrazzo era sempre pieno di ragazzi, che trovavano lì sopra il modo di organizzare certi loro giochi di gruppo. Don Leonardo lasciava fare. Aveva altro per la mente. Era sempre alla ricerca di nuove progettazioni per risolvere vecchi problemi di interesse pubblico.
Dinamico, fattivo, geniale, aveva impiantato nei primi decenni del secolo l’illuminazione pubblica e il mulino ad acqua a Santa Croce; poi la sega e il mulino a vento, a proposito del quale, il poeta artigiano, più sopra ricordato, così dice in una poesia dedicata a don Leonardo:
“… nessuno sapeva
cosa mai
con lui facessero
tanti operai.
… solo dopo
si seppe l’utile
vero scopo:
quando, finito
… quel movimento,
era… che cosa?
un mulino a vento”.
Impianterà più tardi la segheria elettrica, il mulino elettrico, il servizio automobilistico. A detta di tutti, don Leonardo anteponeva sempre il bene della comunità al suo interesse personale.
Don Luigi
Qualche volta sul balcone si vedeva don Luigi Campanelli, serio in viso, curvo, con un libro in mano.
Aveva pubblicato da poco “Il territorio di Capracotta”.
Il libro circolava tra le famiglie. I ragazzi ne sentivano parlare e ponevano domande sulle cose e i fatti narrati, cominciando così sin da allora a prendere qualche interesse per la storia del paese. Si sapeva che l’opera – la storia di Capracotta dalle lontane origini, inquadrata nel panorama degli eventi politici ed economici della regione, intesa in senso lato – era il frutto di anni di studio e di ricerche, fatte con impegno e passione negli archivi e nelle biblioteche. Arricchiscono il libro interessanti note sulle tradizioni, i costumi, le attività preminenti dei capracottesi e sulle caratteristiche fisiche e geologiche del territorio.
Felice il fogliaro
Primavera! Il disgelo era alla fine. I valloni della Guardata gorgogliavano, gonfi d’acqua delle nevi che si scioglievano più a monte, e cento piccoli rivi, anch’essi ricolmi, scorrevano mormorando dalle pendici di Colle Cornacchia, sparpagliandosi giù per la Difesa. Segno che l’inverno era finito.
Allora da Sant’Angelo saliva zi Felice il fogliaro con la giumenta carica di ortaggi. “Iamm alle foglie”
ed ecco la sua figura ciondolante in fondo alla svolta, col cappellaccio tirato giù. “Insalata, cipolle, scarola!”. Le donne escono: zi Felice le conosce tutte e le chiama per nome. Mentre è intento alla vendita, chiacchiera allegro e di tanto in tanto, scappellandosi, manda una lode al Cielo. Per pochi soldi rifornisce tutti di verdura, ma qualche donna, incontentabile, gli sfila dal mazzo un cespo d’insalata: lui allora, trattenendo un’imprecazione, sbotta in una… benedizione. A giro finito, appena il tempo di una capatina in chiesa e via… a casa.
I banditori
Scende dalla scalinata di Muccio Gildonno il banditore. Stava lavorando da manovale, con la callarella sulle spalle, quando Cosimo l’orefice l’ha mandato a chiamare per il bando. Gildonno ha avuto appena il tempo di ingollare un bicchiere di vino. Col berretto a sghimbescio, la pipa in bocca mezzo spenta e la cornetta in mano, strascicando il passo, com’è sua abitudine, si avvicina alla cantonata di Trotta, si sporge, suona due volte e lancia con voce alta e chiara il bando giù per la china di San Rocco: “In casa di Erasmo Iacovone è arrivato Cosimo di Agnone con ricchi assortimenti di oro e d’argento e si trattiene fino a domani a mezzogiorno”.
Quando don Gildonno se ne andò, lo sostituì Vincenzone. Vincenzone, quando andavano nella bottega a chiamarlo, appendeva la sega al piuolo, si scuoteva la segatura di dosso, si riempiva le tasche di pane e via col suo bando. Tra una fermata e l’altra, dava una smozzicata al pane e avanti.
Qualcuno gli gridava: “Vincè…? Ma mangi sempre, mangi…?” Vincenzo, per tutta risposta, emetteva con la bocca piena una specie di grugnito e proseguiva. Qualche volta il bando era lungo e difficile a ricordarsi e allora Vincenzone leggiucchiava, complicando seriamente le cose.
Il gelataio
Pomeriggio estivo. La strada è quasi deserta. Due o tre vecchiette, sedute sulla soglia di casa, intente a fare la calza, il fazzoletto scuro, con le cocche ripiegate sopra, sulla testa. Ai loro piedi tre o quattro marmocchi che si trastullano come meglio possono. In mezzo alla strada, bianca di luce riflessa dalle facciate delle case, un cane steso al sole.
Ad un tratto il suono di un fischietto rompe la quiete sonnolenta dell’ora. È Ercolino di Mercallò, detto anche zi Merca, che viene avanti, col grembiule bianco, dalla svolta di Giorgetto, spingendo il carrettino del gelato. Ercolino, falegname uscito delle vecchie e rinomate botteghe della Via Nuova, uno dei bocciofili a tempo… libero, perdurando la disoccupazione artigiana, si è improvvisato gelataio; forse deve aver pesato sulla decisione di cambiare di punto in bianco mestiere, anche il fatto che sotto al casotto di don Luigi, di cui egli è il custode c’è una piccola neviera, che gli risolve il problema del rifornimento del ghiaccio.
Una ragazza con un bimbo per la mano gli si avvicina e gli chiede un gelato per il piccolo. Zi Merca per due soldi porge al bimbo un piccolo cono al cioccolato, semiliquido. Come era da prevedersi, ben poco della succulenta pappardella finisce in bocca al marmocchio: buona parte gli gocciola addosso, fra la costernazione della sorella.
Carminuccio sotto alla gonnella
In fondo alla strada compare una strana figura nera, che fa vivo contrasto col bianco delle case.
Sembra un’apparizione. È Carminuccio “sotto alla gonnella”, un anacoreta delle masserie di Gamberale, che viene per la cerca.
L’uomo è tutto nell’espressione con cui viene nominato. Una lunga sottana nera, che gli scende fino alle caviglie, stretta alla cinta da un cordoncino, dalla quale emerge la testa con due occhi vivi da spiritato. Un cappellaccio nero a larghe falde, col cocuzzolo tondo, completa l’opera. Ha in mano la cassetta delle offerte con una immagine sacra appiccicata sopra, e nell’altra un lungo bastone. A tracolla la bisaccia.
Parla, anzi farfuglia, in modo appena percettibile, con voce gutturale, profonda. Sembrano, le sue, parole di una cabala.
I ragazzi, appena lo vedono apparire, lasciano i giochi, turbati. Qualche donna si avvicina e infila una moneta nella cassetta. Carminuccio alza la mano in un gesto vagamente benedicente e barbuglia qualche parola, forse di ringraziamento, e se ne va. I ragazzi devono avere intuito che sotto sotto Carminuccio non deve poi essere quel baubau che sembra e timidamente tentano qualche approccio canzonatorio. Visto che va, attaccano e allora cominciano veramente i guai per il povero Carminuccio sotto alla gonnella.
Domenico D’Andrea
Fonte: D. D’Andrea, Sul filo della Memoria, D’Andrea s.p.a., 2016