Una panoramica invernale di Capracotta. Foto: Giorgio Paglione
Non è casuale che, ancora una volta, io prenda spunto dal bellissimo articolo dell’amico don Michele Di Lorenzo, pubblicato a Capracotta sul fascicolo di dicembre 2008 del periodico “VORIA e intitolato: “In dialogo…a singhiozzo con la mia terra di origine”; del tutto imprevedibilmente infatti, ho avuto modo di rileggere, in questi giorni un mio commento a quelle sue riflessioni che avevo denominato: “La montagna: il nostro tesoro”.
Ed è stato spontaneo da parte mia un confronto tra i pensieri che esprimevo in quella occasione, ormai remota, e quelli attuali: con un bilancio finale che, speriamo (?), si riveli meno sconfortante di quanto potrebbe apparire.
Ho ripercorso i diversi, spesso negativi e dolorosi accadimenti che hanno caratterizzato gli ultimi 12 anni, sia sul piano personale che collettivo; mi basti ricordare, già all’inizio del 2009, il terribile evento sismico dell’Aquila, poi diverse malattie in ambito familiare ed altri eventi su cui preferisco sorvolare: essi hanno contribuito, tra l’altro, alla mia decisione di lasciare la città dell’Aquila dopo la mia pensione, per stabilirmi sulla costa adriatica, a Montesilvano, accanto all’abitazione di mia figlia maggiore, Daniela.
Nel periodo più recente, è stata poi davvero traumatizzante per tutti la pandemia da Covid 19: tanto più con la perdita di alcuni cari amici anche nel territorio di Capracotta e tuttora, in fondo, abbastanza minacciosa ovunque.
Così, proprio come temeva don Michele, è stato ineluttabile che, insieme ai pur valorosi amici costretti ad emigrare, anch’io “rivolgessi lo sguardo verso il mare”, nella crescente difficoltà e poi persino nella impossibilità di “alzare gli occhi verso i monti”: tanto meno di raggiungerne la vetta, come facevo spesso nel passato; mi sento perciò sempre più “orfano” di questo aiuto concreto e prezioso, suggerito persino dalle Sacre Scritture, che io centellinavo nel corso dei mesi dopo ogni pur breve soggiorno a Capracotta: proprio come si faceva, tanti anni fa, con le provviste di viveri e di legna per il lungo inverno in alta quota.
In altre parole non posso neppure illudermi, come gli antichi pastori di dannunziana memoria, “che sapor d’acqua natia rimanga nel mio cuore esule a conforto” e mi fa paura pensare che le mie “pile interiori”, da ricaricabili che erano, siano ora inutilizzabili: soprattutto che anch’io stia “perdendo la mia anima o, più drammaticamente, che l’abbia già perduta non riuscendo più a ritrovare “quella della montagna”.
Come fare perciò, per riconquistarla e con essa il suo tessuto di amore, di fede e di conoscenza, in altre parole “la mia stessa vita, purché…riempita di significato”?
Ripensavo con grande sgomento che, già diversi anni or sono, il mio pessimismo era quasi giunto al paradosso di non farmi più desiderare quella montagna; proprio il contrario di quanto, provocatoriamente, si augurava don Michele: “coltivare la speranza ricominciando da tante cose ormai abbandonate o addirittura riaprire gli stazzi delle nostre pecore per ripopolarla”!
Avevo cercato di mitigare il mio sconforto facendo affidamento su diverse realizzazioni che consideravo un vero toccasana in quel periodo: ad esempio l’inaugurazione a Capracotta della residenza per anziani nello storico edificio del nostro Asilo infantile e diverse altre provvidenziali iniziative; di esse non rinnego certo l’importanza ed il prezioso contributo offerto ad una collettività sempre più esigua, ma non si può certamente dire che sia stato possibile “ripopolare la montagna”: al contrario anche gli ultimi dati statistici, spesso sottolineati e commentati anche dalla Associazione “Amici di Capracotta”, sembrano confermare il contrario.
L’angoscia mi è parsa ancor più grande alcuni giorni or sono, durante un colloquio confidenziale con mia figlia maggiore; mi è dispiaciuto infatti sentire che disapprovava il mio insopprimibile anelito a “riguadagnare la nostra montagna” quasi giudicandolo un assurdo capriccio senile: nel mio caso persino declinato in senso letterale e cioè nell’assurda pretesa di risiedervi stabilmente.
Riusciresti a capirmi, mi chiedeva, se testardamente come te volessi anch’io tornare ad ogni costo all’Aquila solo perché ci sono nata o per il ricordo di un sereno periodo infantile?
Ho cercato allora di spiegarle, senza tuttavia convincerla, che verosimilmente, ad una più attenta analisi, tra le diverse generazioni potrebbe non esserci, in fondo, così tanto disaccordo.
È comprensibile, infatti, la struggente nostalgia della propria terra di origine in una persona della mia fascia di età: specie avendo vissuto da piccolo nel fiabesco scenario di Capracotta, che pure era appena uscita dalla distruzione e dalla guerra; d’altro canto è parimenti scontato che una persona più giovane non abbia avuto modo di crescere su radici altrettanto robuste e soprattutto in un momento storico di cosiddetta “globalizzazione”.
A questo punto, ancora una volta cercando di attenuare il mio pessimismo, il pensiero è andato a diversi, più recenti elementi che potrebbero, augurabilmente, rivelarsi preziosi: sempre ostinatamente inseguendo il difficile traguardo di “ripopolare la montagna”.
Sono ben consapevole del fatto che, se mai questo prodigio si realizzasse, non ci sarebbe alcun beneficio pratico per me dal momento che ormai la mia età è troppo avanzata, per di più nella attuale condizione familiare e di malattia: ma sono convinto che, se ancora potessi rendermene conto, ne ricaverei un vantaggio incommensurabile dal punto di vista psicologico.
Ho riflettuto così, proprio in questi giorni, ad alcuni importanti fattori di novità che potrebbero nuovamente farci “sognare ad occhi aperti”: ad esempio il fatto che tante persone, anche non più giovanissime ma capaci di volgere in positivo gli stessi disagi della pandemia, stanno cercando di allontanarsi dai grandi centri urbani: magari utilizzando i moderni sistemi informatici di “lavoro a distanza” o riscoprendo e valorizzando diverse attività economiche compatibili o addirittura favorevoli alla salvaguardia naturalistica e delle tradizioni culturali nei territori incontaminati della montagna.
A tale proposito mi ha fatto estremo piacere leggere sul sito degli “Amici di Capracotta”, il recente contributo dell’amico e parente Amato Nicola Di Tanna, presidente dell’Associazione “Progetto Capracotta” e non sorprende che il suo titolo sia “Progetto di Accoglienza: riempire gli zaini dei giovani con saperi professionali”: vi si coglie un riferimento non solo alle prospettive di una dignitosa ricollocazione, specie in montagna, dei “migranti” che giungono in Europa, ma soprattutto allo scopo di moltiplicare le opportunità professionali e di lavoro per i giovani del nostro territorio: in aggiunta, s’intende, ad una più complessa e articolata strategia sul terreno del turismo sostenibile, delle attività sportive e di tanti altri settori di cui, purtroppo, non ho alcuna esperienza.
Resto convinto che solo perseguendo tenacemente queste finalità, si potrebbe recuperare l’entusiasmo e l’interesse di molte persone giovani che, pur non potendo magari fissarvi la propria residenza, sarebbero comunque più motivate ad avvicinarsi alla “nostra montagna” ed al nostro paese: recuperando forse, come già dicevo, “la sua anima” e scoprendo (o riscoprendo) ad esempio la gioia di gustarvi il misterioso “Suono del Silenzio”, l’incanto del “Cielo stellato”, il turbinio di una “Tormenta di Neve” e tanto altro.
Quanto poi al reinserimento altrettanto prezioso dei soggetti in età più avanzata, ferma restando la grande utilità umana e sociale della splendida residenza “Santa Maria di Loreto”, e di diverse altre istituzioni in ambito di socio-sanitario, mi ha affascinato in questi ultimi mesi un’altra possibilità cui è stato dedicato molto spazio da parte dei giornali e degli altri mezzi di comunicazione: mi riferisco, sia pure utilizzando a malincuore un termine anglosassone, al cosiddetto “co-housing”.
Si tratta, come molti sanno, di utilizzare dei gruppi professionali multidisciplinari nel campo dell’assistenza affinché possano farsi carico delle molteplici esigenze di persone anziane, preferibilmente ancora inserite nel loro nucleo familiare e che possano essere ospitate in appartamenti o settori autonomi dello stesso edificio (“casa insieme ad altri”).
Da profano ho il timore che il patrimonio edilizio e lo stesso assetto urbanistico di Capracotta non siano tra i più idonei allo scopo ma nel Nord Italia, anche in località di montagna, esistono già alcune promettenti realtà di questo genere; è comprensibile, peraltro, che anche in questo ambito occorra tanta inventiva e soprattutto tanta competenza.
Perché non provarci in questo momento, magari favoriti dalle lusinghiere, maggiori possibilità di investimento che sembrano concretamente profilarsi dopo una lunga crisi?
Intanto, rinnovando la mia fiducia e la mia immensa gratitudine nei confronti di quel valoroso manipolo di coraggiosi che tuttora risiedono a Capracotta, con grande trepidazione rivolgo un accorato appello alla buona volontà ed alle capacità di tutti i concittadini sparsi in Italia e nel mondo.
E mi piace concludere ricordando, ancora una volta la famosa e per me assai commovente espressione, tratta dal romanzo “La luna e i falò”:
“Chi ha un paese nel proprio cuore non è mai solo!”
Mi auguro cioè che davvero nessuno, anche e soprattutto tra i più giovani, sperimenti l’angoscia di non avere un paese nel proprio cuore: neppure “di adozione” e quindi di essere malinconicamente destinato a sentirsi…sempre più solo
Aldo Trotta