Vincenzo Evangelista, “Vincenzone”, in una vecchia foto e in un ritratto di Leo Paglione
Scende dalla scalinata di Muccio Gildonno il banditore. Stava lavorando da manovale, con la callarella sulle spalle, quando Cosimo l’orefice l’ha mandato a chiamare per il bando. Gildonno ha avuto appena il tempo di ingollare un bicchiere di vino. Col berretto a sghimbescio, la pipa in bocca mezzo spenta e la cornetta in mano, strascicando il passo, com’è sua abitudine, si avvicina alla cantonata di Trotta, si sporge, suona due volte e lancia con voce alta e chiara il bando giù per la china di San Rocco: “In casa di Erasmo Iacovone è arrivato Cosimo di Agnone con ricchi assortimenti di oro e d’argento e si trattiene fino a domani a mezzogiorno”.
Quando don Gildonno se ne andò, lo sostituì Vincenzone. Vincenzone, quando andavano nella bottega a chiamarlo, appendeva la sega al piuolo, si scuoteva la segatura di dosso, si riempiva le tasche di pane e via col suo bando. Tra una fermata e l’altra, dava una smozzicata al pane e avanti.
Qualcuno gli gridava: “Vincè…? Ma mangi sempre, mangi…?”. Vincenzo, per tutta risposta, emetteva con la bocca piena una specie di grugnito e proseguiva. Qualche volta il bando era lungo e difficile a ricordarsi e allora Vincenzone leggiucchiava, complicando seriamente le cose.
Domenico D’Andrea
Fonte: D. D’Andrea, Sul filo della Memoria, D’Andrea s.p.a., 2016