“Finì come doveva finire. Venne il giorno predestinato e questa ragazza lacera che era venuta coi calzari di montone si mise corpetti di porpora e gonne fiorite, gonfie come maggesi. Il suo volto fiero e camuso s’arricchì della sua cupidigia come d’una fiamma e i suoi occhi pigri stregarono il padrone che da orco diventò un vecchio orso rammollito. Essa aveva venticinque anni, egli sessanta. Un giorno il padrone la chiamò nelle sue stanze, la guardò cupidamente e le disse: “Geria, tu ami il padrone”.
“Non lo amo” rispose Geria convinta “lo servo”.,
“Ebbene, io ti darò un altro comando, ora, un comando che mai udisti dalle mie labbra”.
“E quale?”
“Io ti comando di sposarmi”.
“Tu non hai più zecchini, padrone”.
Egli rise fragorosamente. Poi tirò a sé un cofano massiccio di quercia, lo aprì con una piccola chiave curiosa e le mostrò un mucchio enorme di piastre d’oro.
“Guarda, guarda!…”
Essa guardava, con la lingua grossa dal piacere; e i suoi occhi gialli, fosforescenti, riflettevano le monete come specchi.
Poi si voltò a lui con semplicità e gli chiese l’ultima grazia: ”Vorrei vedere la madre, padrone!”.
E quando essa, altre volte discacciata, venne lacera e canuta alla cittadella del vecchio signore, Geria le disse: “Puoi entrare, madre, ché oggi io sono la padrona e tu la serva”.
Il brano tratto dal racconto “Il padrone” di Lina Pietravalle, apprezzata scrittrice molisana vissuta tra il XIX e XX secolo, ci offre lo spunto per riflettere sulla condizione della donna di allora come di oggi. Giovinezze strappate all’allegria, alla spensieratezza del tempo migliore, l’obbedienza al comando di sposarsi che miete da sempre e ovunque vittime innocenti, l’incapacità di riconoscere perfino gli affetti più familiari quale risultato della sopraffazione.
La madre diventa serva di sua figlia che la appella così senza dolore, semmai spavalderia. Geria, quale donna, non sapeva, allora, che un giorno la sua condizione sarebbe diventata motivo di riflessione, di studio per intere comunità. Avrebbe suscitato sdegno per i soprusi subiti, attenzione verso il suo “genere” nonché giornate dedicate alla storia di chi come lei subisce, incapace di utilizzare strumenti in grado di contrastare qualunque forma di violenza.
Se allora, nel Molise di fine Ottocento , era la condizione economica della donna a spingerla tra le braccia di vecchi e ricchi padroni affinché potesse indossare “corpetti di porpora e gonne fiorite”, oggi quella stessa ragione, unita al desiderio di amori appassionati e duraturi, promesse lusinghiere, fanno di mogli, di madri, di figlie, vittime di orrende crudeltà che non sfociano solo in efferati delitti ma si consumano quotidianamente nella sottomissione psicologica che spesso si autogiustifica e difficilmente si risolve.
Eppure la donna tanto aggredita, sopraffatta, ancor più in questo tempo di pandemia, ha regalato alla storia, alla letteratura, alle scienze tutte, ineffabili figure di cui l’intera umanità si fregia. Lina Pietravalle, come ci riferisce il filosofo- letterato Lorenzo Giusso, “riesce a farci comprendere la vita sotto la specie di una mediterranea danza d’amore e di morte”.
Affacciata alla finestra del suo amato Casino di Bagnoli nella valle del Trigno, ammirava la sua terra molisana “ancora tutta frugale e pastorale, l’unica ancora attraversata per intero dai tratturi”. “Di fronte alla casa,” continua la scrittrice, “su una rupe che al mattino appariva come sospesa sui vapori azzurri del fiume, c’era Bagnoli del Trigno; d’intorno si vedevano Duronia, Trivento, Pietracupa, Pietrabbondante, Agnone, Capracotta in alto, e all’orizzonte Schiavi d’Abruzzo”. Di Capracotta ancora dice: “A 1400 metri sul mare, invece che di rose è cinto di burroni, paese antichissimo, solitario, bello dove l’ospite è onorato, ricevuto con trasporto di giubilo e di piacere”.
Le parole di Lina Pietravalle riferite al padrone di Geria che lanciandole uno zecchino per le scale le dice: ”Prendi e riga dritto”, siano di monito a noi donne affinché alcuna condizione o persona possano violentare la nostra determinazione. E’ proprio il caso di dire che quella mediterranea danza d’amore e di morte debba finalmente cessare!
Clara Dell’Armi
Nota: il brano inziale e vari riferimenti sono tratti dal libro “Incontri con Lina Pietravalle” di Gabriella Iacobucci, ed.NAT3.