“Alla stazione in una mattina d’autunno”: pensieri sulla poesia di Giosuè Carducci

La stazione ferroviaria San Pietro Avellana-Capracotta in un acquerello di Donatella Capo

Stamani, uscendo per il consueto acquisto del giornale quotidiano mi ha, per così dire, sorpreso la pioggia fredda di novembre ed il clima quasi invernale: già annunciato peraltro, in questi giorni, dal cielo plumbeo e dal turbinio delle foglie cadenti.  

Oh qual caduta di foglie, gelida,

continua, muta, greve su l’anima!”

io credo che solo, che eterno,

che per tutto nel mondo è novembre.

Assorto nei miei pensieri tutt’altro che rosei per tante ragioni che tralascio, mi è tornata in mente una delle più note poesie di Giosuè Carducci: “Alla stazione in una mattina d’autunno”, tratta dal secondo volume delle sue “Odi barbare”; mi sono pure rammentato che fu uno dei primi componimenti utilizzati dal mio indimenticabile professore del Ginnasio per abituarci all’analisi ed al “commento estetico” di un brano letterario.

E non fu certo casuale la sua scelta di proporcela la mattina di un piovoso giorno autunnale in cui, nemmeno a farlo apposta, avevo raggiunto la mia sede scolastica di Campobasso in treno: già assai diverso dalla sbuffante “vaporiera” descritta dal poeta.

Oggi notavo come uno strano alone intorno ai fanali già accesi delle automobili, quasi ci fosse tanta caligine, e stentavo a credere che a provocarlo fossero i miei occhiali appannati: dipendeva infatti dalla “mascherina” di cui, con la pandemia, è divenuto quasi istintivo, oltre che tuttora necessario, l’impiego.

Oh quei fanali come s’inseguono

accidiosi là dietro gli alberi

tra i rami stillanti di pioggia

sbadigliando la luce su l‘fango.

Riflettevo ancora che, secondo il giudizio di diversi appassionati cultori, è stato in larga misura ridimensionato il proverbiale “pessimismo” attribuito a Giacomo Leopardi: mi è sempre parso, in effetti, assai più marcato quello espresso ogni tanto da Carducci, come nella citata poesia:

“Dove e a che move questa, che affrettasi

a’ carri foschi, ravvolta e tacita

gente? a che ignoti dolori

o tormenti di speme lontana?”

Lo stesso mio professore ebbe a farcelo notare tanti anni fa, ma raccontandoci pure che gli studenti dell’Università di Bologna in cui il poeta insegnava come ordinario di Letteratura italiana, lo avevano soprannominato “PININI”: dall’antico verbo greco “PINO” che significa “BERE”;  pare infatti che questo non fosse un innocente nomignolo goliardico, ma che si riferisse ad una spiccata indulgenza del poeta per il vino, nel contesto di una personalità gioiosa ed  esuberante: in altri termini molto amante del “bel Vivere” in tutte le sue espressioni.

Traspare inoltre da questi versi grande meraviglia, associata ad un certo timore nei confronti del più recente e moderno mezzo di locomozione di allora: il treno a vapore, preludio di tante altre, incredibili conquiste della scienza e della tecnica.  

Vi è al tempo stesso tutto il rimpianto, non solo della persona amata, ma di tutti i “bei tempi andati” con i loro ricordi più struggenti: specie nell’avanzare ineluttabile degli anni o addirittura nel crepuscolo della vita; sottolineo inoltre che, a mio parere, il pessimismo del brano risulta ancor più deprimente proprio perché contrapposto a momenti di ricordo esaltante o di godimento spensierato:

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera

al secco taglio dài de la guardia,

ed al tempo incalzante i begli anni

dài, gl’istanti gioiti ed i ricordi.

In ogni caso, ben lungi certamente dall’accostare il mio attuale stato d’animo a quello dei due grandi poeti citati, stamani mi sono sentito quanto mai in sintonia con Carducci; sono tornato infatti a casa, non dalla stazione, ma dall’edicola qui vicina: camminando quasi come un ubriaco nella nebbia, con tanto di deprimente “mascherina”:

Sotto la pioggia, tra la caligine,

torno ora, e ad esse vorrei confondermi;

barcollo com’ebro, e mi tocco,

non anch’io fossi dunque un fantasma.

A questo punto, sarei davvero tentato di confessare che mi riconosco pienamente anche nell’ultima, più sconsolante strofa della poesia:

Meglio a chi ‘l senso smarrì de l’essere,

meglio quest’ombra, questa caligine:

io voglio io voglio adagiarmi

in un tedio che duri infinito”

Mi rendo conto invece che, se arrivassi a farlo, tradirei la virtù cristiana della Speranza, per di più apparendo irrispettoso per la mia vocazione di medico e, soprattutto, recherei offesa alla mia cara Anna: fedele sposa di una vita che è sempre riuscita ad arginare, in qualche modo, le mie ondate di pessimismo e che ora, purtroppo, ha davvero smarrito il “senso del suo essere”.

Così cercando ancora una volta di respingere la malinconia, ma con gli occhiali stavolta appannati per la commozione, mi sono accostato alla finestra mentre……

…grossa scrosciava su’ vetri la pioggia:

proprio come in quella “mattina d’autunno” alla stazione di Bologna.

 

Aldo Trotta