Nonno Giangregorio Mendozzi
Da piccolo volevo tanto bene a mio nonno materno, Giangregorio Mendozzi, metalmeccanico allora pensionato a Youngstown, proveniente da una fabbrica il cui fumo tossico copriva la città giorno e notte. Prima della mia nascita, nonno abbandonò il suo lavoro faticoso per una poltrona accogliente e per piccoli sigari neri che gli davano tanto piacere.
Era molto simpatico. Parlava o cantava a tutti suoi nipoti in uno zoppicante inglese con forte accento italo-molisano. Mi sedevo sul suo ginocchio “ad andare a cavallo” e mi chiamava “piccirill’.” A dispetto delle ore che passavo con il mio caro nonno, non sapevo del suo passato in Italia, di quello che vi faceva o non faceva.
Più avanti, arrivò il triste momento, gli 80 anni di mio nonno, in cui prendemmo atto che non poteva più vivere da solo: la sua senilità si faceva sentire mentre riaffioravano ogni volta gli episodi della sua giovinezza a Capracotta. Per di più faceva vari capricci che spaventavano la famiglia. Purtroppo, nell’abitazione del nonno c’erano il fornello a gas e un sacco di altri pericoli domestici. Perciò, si decise di non lasciarlo senza compagnia e di farlo soggiornare a turno dai suoi figli: una settimana da zia Norma, un’altra da zio Mario, e le due ultime settimane del mese da noi.
Durante una triste serata soffrì un attacco di panico nel cercare in fretta il suo “ciucce”, o asino, stranamente perduto. In quell’epoca abitavamo in un quartiere di case modernissime, tutte. Era difficile convincerlo che la sua bestia non si era perduta, ma che in realtà non esisteva. Inoltre credeva che a pochi metri, lì alla fine della nostra strada, sarebbe stato trovato l’amato animale smarrito. Voleva che lo cercassimo.
Più tardi nella primavera dello stesso anno, me ne andai a trovare lavoro a Juneau, la capitale dell’Alaska, dove il costo della vita era altissimo ma con salari minimi. Facevo l’operaio in un panificio ma il tutto non era sufficiente per pagare l’affitto. Senza aver avuto successo in quella terra, decisi di ritornare a Youngstown. Prima di salire in aereo passai in un piccolo negozio di ricordi cento per cento fatti nell’Alaska. Questo stato degli USA è noto per gli ovini selvaggi, chiamati “Dall sheep.” Parecchie volte li vidi nel loro saltare qua e là nelle montagne. Perciò mi comprai due ricche pelli fitte di lana alba per regalare alla famiglia.
Ritornato a Youngstown, trovai che il nonno era già arrivato a casa nostra e si era sistemato nella mia stanza da letto. Pover’uomo, in quei tempi passava le notti nel terrore di una morte improvvisa. Di giorno camminava su e giù nei corridoi prendendo e controllandosi il polso. Quando i rassicuranti battiti venivano meno, lui diceva. “Aiuto, il polso non ci sta!”.
Siccome mi trovavo senza letto dovevo dormire sul divano. Dunque non restavo molto a casa più del necessario. Uscivo con i miei amici, assorto nell’egoismo dei giovani. Quindi non prestavo molta attenzione ai disagi del nonno. Il curarsi del vecchietto era faccenda degli adulti della famiglia. Però una sera, lui disteso sul mio letto con la mano al polso come sempre, vide per la prima volta le pelli da poco tirate fuori dai miei bagagli. In un attimo si tolse la mano dal polso e si animò alla vista del biancore dei due velli portati dall’Alaska. Subito si accese una scintilla insolita negli occhi. Poi articolò la parola “Capracotta” e qualche altra che non capii.
Nel corso della sera, con l’aiuto di mamma mi resi conto che mio nonno faceva il pastore in Italia in un tempo lontano di cui io non ebbi idea. Insomma, in quell’anno, prima che morisse, Giangregorio Mendozzi mi regalò un tesoro: gli ondulanti tratturi verdi della sua giovinezza fitti di bianchissime pecore che belavano qua e là nell’aria fresca dell’Alto Molise. Fu proprio un’eredità.
Ben Lariccia
Fonte: AA.VV., A la Mèrɘca. Storie degli emigranti capracottesi nel Nuovo Mondo, Amici di Capracotta, Cicchetti Industrie Grafiche Srl, Isernia, 2017