Panorama di Capracotta da Monte Campo. Foto: Sebastiano Di Tella
«Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nella terra c’è qualcosa di tuo: che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Fino a qualche anno fa non conoscevo questa espressione del celebre scrittore Cesare Pavese nel suo libro “La Luna e i falò”; ora invece le sue parole mi tornano in mente quasi ogni giorno e risvegliano il mio, mai sopito anelito a ritornare stabilmente nel paese in cui sono nato, Capracotta: quasi mi sentissi colpevole di averlo privato troppo a lungo della mia presenza.
Nei giorni scorsi ho avuto occasione di leggere il pregevolissimo volume della dottoressa Letizia Sinisi dedicato al cosiddetto “Turismo delle Radici”; e, da profano della materia, non avrei mai immaginato la ricchezza e la complessità delle motivazioni che spingono gli emigranti italiani o i loro discendenti a scoprire o a riscoprire gli innumerevoli “tesori” dei loro luoghi di origine.
Per inciso vale la pena di sottolineare che vi sono comprese anche diverse citazioni della nostra diffusa e vivace comunità di residenti all’estero derivate dal recente volume “A la Mèreca” (Edizioni “Amici di Capracotta”); del resto io stesso ho avuto modo di recepire negli anni lo sforzo incredibile di tanti concittadini, spesso purtroppo inutile, per tornare a risiedere stabilmente in paese o, in ultima istanza, per essere almeno sepolti nel nostro Cimitero alla loro scomparsa.
Oltre tutto la mia generazione è stata anche testimone del commovente sacrificio di molti che facevano l’impossibile, anche da oltre oceano e con gli antichi mezzi di trasporto, pur di non mancare all’appuntamento con la festa più grande del paese, l’Otto settembre: il vero “Capodanno di Capracotta” come raccontavo già diversi anni fa.
Ciò non toglie, tuttavia, che io tenga nella massima considerazione i consigli di tante persone, specie congiunti ed amici secondo i quali, per mille ragionevoli motivi, non avrei altra scelta se non quella di rassegnarmi a restare “in esilio”; e non posso certo riassumere in poche righe le diverse e gravi motivazioni che me lo avevano imposto: comunque successive all’evento sismico del 2009 all’Aquila, ma non ad esso correlate.
Nel 2014, tanto più avendo cessato qualsiasi attività di tipo professionale, era inevitabilmente prevalso l’impegno di tipo assistenziale in famiglia, dapprima per mio fratello Carlo scomparso nel 2020 e poi per mia moglie Anna, ora purtroppo del tutto inabile; si spiega così la sofferta decisione di cambiare residenza per avvicinarmi a mia figlia maggiore Daniela: sia per beneficiare del suo sostegno pratico e di quello della sua famiglia, sia e soprattutto di quello psicologico.
Non potevo certo ignorare che io stesso, alcuni anni prima, avevo ottenuto che mia madre e mio fratello si trasferissero dal Molise all’Aquila proprio per facilitare il mio stesso compito.
Al momento attuale tuttavia, essendo trascorsi circa otto anni da allora e con l’aggravante di ulteriori, impreviste difficoltà nell’ultimo biennio, mi è parso almeno doveroso ipotizzare una diversa, pur traumatica strategia: tanto più nel disagio crescente del mio “esilio” e nel progressivo peggioramento, anche per l’età, delle mie risorse psicofisiche.
Mi sono perciò chiesto e mi chiedo se e quanto valga la pena di accanirsi per restare ad ogni costo “lontano”: sia pure nella consapevolezza di essere un privilegiato per il prezioso aiuto che tanti anziani si vedono invece negare dai figli o comunque dalla loro famiglia. Non mi nascondo certamente le inevitabili, maggiori difficoltà generali cui andrei incontro in un paese di montagna come Capracotta, oltre tutto difficilmente raggiungibile per entrambe le mie figlie e senza contare il grande rischio di emergenze-urgenze di carattere sanitario; mi sentirei comunque assai più sereno e “dignitoso” in paese, non escludendo la teorica possibilità di essere accolto con mia moglie nella “residenza per anziani” (?): evocatrice, per me, di tanti ricordi infantili essendo collocata nello storico antico edificio, ora magistralmente ristrutturato, che a Capracotta ospitava l’Asilo infantile e la Scuola elementare.
In ogni caso, specie all’inizio di un nuovo anno, riaffiora tumultuosamente la mia smania di un “ritorno alle radici”: per riscoprire la gente, la terra, i miei monti (e la neve?) che ero stato costretto ad abbandonare a 16 anni, ma cui forse è parsa troppo lunga la mia assenza; e quasi sorrido di me stesso ricordando che, paradossalmente, la gente di Capracotta è tuttora considerata tra le più “cosmopolite” di tutto il Molise! A conclusione di questi “pensieri”, mi piace ricordare un altro dei personaggi del volume “A la Mèreca”, il caro Luigi Di Rienzo (per gli amici “Gigino”); nella sua storia vi è tutta la sofferenza di tanti nostri concittadini costretti ad emigrare oltre oceano, ma assolutamente incapaci di adattarsi a quell’ “esilio”: tanto da sottoporsi ad un faticosissimo andirivieni fino a ritornare stabilmente in patria. Al caro Domenico Di Nucci che gli chiedeva da quanto tempo fosse di nuovo in paese rispondeva sorridendo:
“Da quande me n’aiie iute a la Mèreca!”
(da quando sono andato in America!).
Al momento attuale, ammesso di riuscire a tornare dopo tanti anni e così vecchio a Capracotta (chissà!?), qualcuno potrebbe pormi la stessa domanda pur sapendo che non ho mai attraversato l’oceano come “Gigino”; ed anch’io sarei tentato di mentire, ancor più di lui, rispondendo:
“ne me n’aiie mià iute!
(non sono mai andato via!)
…ma sarebbe una bugia piccolissima perché con la mente ed il cuore resto davvero ancorato alle mie…Radici
Aldo Trotta