Antonio Carnevale e la moglie Antonina, detta “Nina”
Cercando di mettere in ordine tanti ricordi, il mio pensiero è riandato a diversi personaggi che hanno animato la mia infanzia: cui rimango quanto mai riconoscente per il loro prezioso contributo alla mia crescita ed alla mia stessa vita.
Oggi la mia riflessione è rivolta ad una delle più umili, ma anche più incisive figure cui accennavo e cercherò di spiegarne le ragioni: si tratta di un mio zio acquisito, Antonio Carnevale, che aveva sposato l’unica sorella di mio padre: la zia Antonina (per tutti “zia Nina”).
Nato a Capracotta nel 1898, era figlio di uno storico allevatore di pecore, Mario Carnevale, vissuto fino all’età di 100 anni e certamente tra i più longevi a percorrere con il suo gregge gli antichi tratturi verso la Puglia: ed era quasi scontato, per i tempi, che anche lo zio Antonio seguisse le orme del padre facendo il pastore.
Non mi soffermerò certamente sulla nobilissima tradizione della “transumanza”, argomento che non riuscirei neppure a sfiorare, ma sarei felice che emergesse il profilo umano di questo zio: che tra l’altro, insieme alla zia, è stato mio padrino di Battesimo il 15 agosto 1943, proprio alla vigilia della distruzione di Capracotta per la guerra.
Va ricordato che, tanto più non avendo figli, avevano dedicato tutto il loro affetto ai numerosi nipoti e pronipoti e lo zio Antonio, pur così schivo e riservato come tanti pastori, mi consentiva di tutto da piccolo, essendosi guadagnato la più completa fiducia dei mei genitori.
Così, da perfetto “baby sitter” ante-litteram, mi aveva accolto sin da piccolo nel folto gruppo di bambini per cui spendeva parte del suo tempo; durante l’estate ad esempio, organizzava delle meravigliose passeggiate in montagna, sempre conducendo un robusto asinello che, ancor più paziente di lui e carico di ogni ben di Dio per la nostra merenda, potevamo cavalcare a turno in tutta sicurezza.
Più tardi si vide costretto a farmi quasi da sorvegliante giacché facevo di tutto per restargli ancor più spesso vicino: non solo quando era al lavoro nella stalla, ma anche e soprattutto quando raggiungeva, con un bellissimo “calesse” (la famosa “bighetta”), gli stazzi estivi delle sue pecore; appena fuori dall’abitato infatti, mi faceva sedere a cassetta tra le sue gambe assecondando persino la mia pretesa di far schioccare, per gioco, la frusta.
Mi sentivo perciò, al colmo dell’entusiasmo, un esperto “cow-boy” nell’immensa prateria di “Monteforte”: e mi attendevano festanti anche i grossi cani-pastore di cui non era stato facile vincere il timore iniziale.
Successivamente, già più grandicello, ricordo una occasione in cui dovemmo camminare a lungo sotto il sole in aperta campagna ed era un giorno molto afoso anche a Capracotta: mi venne perciò una gran sete ma avevo dimenticato a casa la borraccia e lo zio allungò il percorso facendomi scoprire una piccola sorgente; era certo che vi si potesse bere in assoluta sicurezza ma si rese conto, invece, che qualcosa di imprecisato l’aveva inquinata di recente: e l’acqua, di solito limpida e potabile, appariva torbida e quasi “lattescente”.
Così restai assetato finché lo zio, raggiunto un suo giovane aiutante che era a cavallo, lo pregò di attingere acqua da un’altra, più lontana sorgente: fui così finalmente in grado di bere ma ebbi il timore che, dopo questa infelice esperienza, lo zio mi avrebbe negato ogni altra concessione; non fu così per mia fortuna ed io continuai ad accompagnarlo sebbene gli recassi molto disagio: ad esempio quando era in corso il trasporto della legna da ardere dal bosco, ma con il singolare privilegio di poter sempre cavalcare, con il suo aiuto, il più mansueto dei cavalli.
Seguirono anni difficili anche dal punto di vista economico, specie con il progressivo declino della pastorizia e fu giocoforza che lo zio si adattasse ad altre, diverse attività, anche assai meno remunerative; non scomparve tuttavia il suo sorriso, almeno fino agli ultimi anni ’60, quando la zia rimase semiparalitica dopo un insulto vascolare cerebrale.
Da allora in poi, sia pure potendolo incontrare più di rado, fu evidente il suo sconforto: ma non cessò mai, sia pure così da solo, di assistere la moglie fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1978.
Qualche anno più tardi, ancora molto prestante, accettò l’invito a trascorrere un breve periodo con la mia famiglia all’Aquila e fu piacevolissimo accompagnarlo a visitare dei luoghi che non conosceva: in particolare l’altopiano di Campo Imperatore, alle falde del Gran Sasso, e lo rividi sorridere compiaciuto mentre osservava le tantissime pecore ancora presenti su quei pascoli di montagna di cui chiedeva notizie ai loro pastori.
Di lì a poco, con una certa aria di mistero, mi pregò di raggiungerlo…per una cosa importante: voleva regalarmi, infatti, un fucile da caccia molto antico, a cani esterni e di calibro 16; tenuto sempre disponibile, in anni remoti, per la guardia alle greggi, lo aveva poi custodito con molta cura, sebbene risultasse un po’ danneggiato dall’umidità: per evitare infatti che fosse requisito durante la guerra, era rimasto nascosto a lungo sotto il pavimento di una vecchia stalla, naturalmente senza una efficace protezione.
Pochi mesi dopo, avendolo fatto restaurare all’Aquila, glielo mostrai orgogliosamente raccontandogli che l’armiere ne aveva apprezzato la pregevolissima fattura e promettendogli che lo avrei gelosamente conservato come suo prezioso ricordo: adesso infatti, quell’antica “doppietta”, protegge simbolicamente la mia vecchia casa in una moderna rastrelliera a prova di ruggine.
Nel luglio 1984, quasi lo zio Antonio avesse voluto attendermi, ero appena giunto a Capracotta per un breve soggiorno quando mi chiamarono d’urgenza al suo capezzale; era andato incontro ad un malore improvviso e trovai già presente l’anziano collega curante, ma la sua condizione apparve subito molto seria, con edema polmonare acuto e grave tachiaritmia; così non ci fu modo e tempo di aiutarlo realmente, tanto più in ambiente extraospedaliero; e fu grandissimo il mio dispiacere, mitigato solo dal conforto di averlo tenuto per mano durante la sua, brevissima agonia.
Avviandomi infine alla conclusione di questi miei ricordi, mi è tornata in mente una massima del celebre scrittore Wolfgang Goethe; riportata in un recente messaggio augurale da Capracotta, ne trascrivo le parole testuali
“I monti sono maestri muti.
che fanno discepoli silenziosi”,
nella certezza che contengano l’elogio migliore per il personaggio “di altri tempi” che ho cercato di descrivere: quello di un “discepolo silenzioso”, testimone di preziosi insegnamenti che sarebbe bello fossi riuscito a trasmettere un po’ anch’io (?).
Grazie ancora una volta, caro zio Antonio, per il tuo esempio di bontà e di mitezza; ad un vecchio “pastore” di Capracotta non posso che ripetere commosso:
riposa in Pace… sui “pascoli erbosi” dei tuoi monti.
Aldo Trotta