Zia Michela Serlenga
Alla mia età non avrei immaginato che mi tornassero in mente, così spesso, tanti ricordi della mia infanzia; e sono diverse le ragioni che ritengo essere in gioco, come il singolare isolamento e il disagio che hanno contrassegnato, specie per me, questi ultimi anni: senza contare il mio sconforto per l’impossibilità di ritornare stabilmente a Capracotta.
Attualmente inoltre, dispongo di molto più tempo che trascorro spesso nel silenzio più assoluto, in compagnia dei miei soli pensieri ed è perciò istintivo che io segua l’esempio di diversi amici: che, assai prima e meglio di me, hanno raccontato la storia di personaggi non famosi o eccezionali ma, al contrario, semplicissimi quanto ammirevoli.
D’altro canto è comprensibile che, al momento attuale, i ricordi di questo genere facciano sorridere perché considerati anacronistici, ma sono convinto che, proprio per questo motivo, valga la pena di riproporli nel loro valore umano e, perché no?, educativo: anche ricorrendo ai moderni mezzi di comunicazione di cui sono maestri i giovani di oggi.
Sono già diverse le figure di… altri tempi cui ho cercato di rendere omaggio con le mie parole a cominciare, naturalmente, dalla mia cerchia familiare; così, forse in ossequio alla regola per cui” un ricordo tira l’altro”, questa volta il mio pensiero è rivolto alla cara zia acquisita, Michela Serlenga: rimasta vedova, sfortunatamente e troppo presto, del fratello di mio padre Vincenzo Trotta, che io non ho avuto la fortuna di conoscere.
Vissuta così, da semplice casalinga in una famiglia di stampo patriarcale, si era fatta sempre voler bene diventando ben presto il vero albero-motore della casa: sempre dedicandosi, naturalmente, alla cura dei suoi 3 figli, specie dopo la prematura scomparsa anche dei suoceri, i miei nonni paterni.
Così a parte i diversi impegni abituali che, a beneficio di tutti includevano pure l’allevamento di un maiale, di una capretta e dei polli, la zia era diventata il volano di una vera, piccola azienda familiare: con la tradizionale attività di muratori del nostro “ceppo Trotta” e soprattutto con la faticosa gestione di una pur modesta proprietà terriera.
La ricordo ad esempio quando, con un grosso paniere sulla testa (la “cesta”) e naturalmente a piedi, si recava nella lontana e disagevole contrada dell’Orto Ianiro per portare da mangiare a chi stava lavorando nei campi o per dar loro una mano fattiva: percorrendo, tra l’altro, il sentiero su cui il nonno Carmine aveva fatto collocare, nel 1925, una Croce votiva in ferro battuto; in anni assai più recenti la raggiungevo abbastanza spesso anch’io, almeno finché mi è stato possibile: naturalmente, non per lavoro ma il mio primo pensiero era per il grande sacrificio che simboleggiava.
Eviterei ora di restare su argomenti di questo genere, pur così importanti per la cosiddetta “condizione femminile” di allora: oltre tutto, non sarei in grado di farlo; vorrei piuttosto che dal mio racconto emergesse l’aspetto meno conosciuto e valorizzato della zia e del suo mondo: quello che a maggior ragione, secondo me, merita l’appellativo di “favoloso”.
Ricordo così le tante occasioni in cui la zia Michela, quasi anticipando il prodigio di Mary Poppins, riusciva a tenerci buoni e seduti intorno a lei, specie durante il periodo delle vacanze invernali o comunque nel clima freddissimo di quegli anni a Capracotta: molto spesso infatti ci radunava in tanti, tra nipoti e pronipoti, intorno al suo caminetto acceso.
Non “volava una foglia” quando iniziava a raccontarci una delle sue splendide favole, mescolando simpaticamente italiano e dialetto e dimostrando una straordinaria capacità di “improvvisazione”: unitamente ad una prestigiosa “gestualità” che ci faceva restare immobili, come ipnotizzati; intanto il fuoco disegnava un misterioso balenio in “chiaroscuro” sul soffitto da cui pendevano per la stagionatura, come tanti fantastici festoni, i profumati e deliziosi salumi della zia.
Non riesco a dare un’idea di quelle irripetibili occasioni, che avrebbero certo meritato una registrazione in video e in voce, ma cerco di riassumere la trama di almeno una delle favole, tra le più divertenti e gettonate: era la storia di un modesto e geloso calzolaio, il simpatico “mastro Felice” che si lasciò ingannare da un sovrano, suo improbabile dirimpettaio; questo dispotico Re infatti, con il pretesto di un elaborato paio di scarpe su misura, riuscì a portargli via la giovane moglie, di nome “Grazia”, della quale si era follemente invaghito: naturalmente dopo aver neutralizzato con facilità ogni istintiva difesa del malcapitato artigiano e beffandolo persino, come si direbbe oggi, con un diabolico messaggio subliminale.
Giocando infatti sull’equivoco verbale, ogni volta che provava quel “galeotto” paio di scarpe il Signore gli confessava beffardamente:
Io parto con la vostra “Grazia”,
ma l’ingenuo calzolaio, per nulla insospettito e giocando inconsapevolmente con il suo stesso nome, gli rispondeva tranquillo:
“Felice” e contento, sua Maestà!
È quanto basta, io credo, per entrare nello spirito che animava le tante favole della zia Michela, sempre molto divertenti, ma anche istruttive e piene di antica saggezza; voglio solo aggiungere un altro dei miei motivi di gratitudine per lei (e per lo zio paterno rimasto celibe, Enrico): dopo il sofferto trasferimento della mia famiglia infatti, ancora giovanissimo, fu solo grazie alla loro affettuosa disponibilità che ebbi modo di trascorrere lunghi periodi di vacanza a Capracotta.
Non tardarono infine a sopraggiungere anni assai difficili, contrassegnati dalla grave patologia della zia e dai suoi prolungati periodi di degenza ospedaliera: anche a Roma quando ero studente universitario; ebbi modo così di farle visita abbastanza spesso e di confortarla un po’ con la mia stessa presenza; rimasi sempre ammirato della sua forza d’animo e della sua esemplare, cristiana sopportazione.
Qualche mese dopo la mia laurea, giunse purtroppo la notizia che la zia era scomparsa e fui in grado a malapena di partecipare al suo funerale a Capracotta, il 13 dicembre 1968; dopo tante bufere di neve nei giorni precedenti infatti, ci fu una brevissima tregua che mi consentì di arrivare.
Poco più tardi quel giorno, già in serata, ricominciò a nevicare e fui costretto a ripartire in fretta ma, per l’intensa commozione, non riuscivo quasi a guidare: i miei occhi erano ancora pieni di lacrime!
Non potevo certo immaginare che, a distanza di tanti anni, avrei raccontato, con tanta nostalgia, di quel favoloso mondo: tanto meno che, rivivendolo in tutta la sua magia, avrei di nuovo sorriso come da bambino.
Grazie di cuore, cara zia Michela: ti voglio bene!
Aldo Trotta