Un pastore con il suo gregge. Foto: Sebastiano Falcone
Fin dai tempi più remoti la pastorizia, cioè “l’arte del pastore”, ha occupato un posto di rilievo sia nella storia che nelle tradizioni del popolo capracottese. Per la natura del suolo, montuoso e a soli piccoli tratti collinare, nonché per il clima rigido, la pastorizia è stata, per secoli, l’attività prevalente rispetto all’agricoltura. Anche se, spesso, gli stessi pastori, erano contadini, falegnami, ecc…, sapevano e, soprattutto, dovevano adeguarsi a far tutto. Descrivere i tempi, i modi e i ritmi della vita del pastore, della sua famiglia e di tutte le persone con cui aveva scambi di varia natura, non è cosa facile, data la scarsità dei documenti a noi pervenuti e quello che si conosce è frutto della memoria e dei ricordi che accomunano le persone che hanno vissuto in quegli anni. Vissuta dal di dentro, immedesimandoci nelle persone di allora, rischia di perdere un po’ del suo fascino, però riportandola così come me l’hanno raccontata, riuscirete, almeno per un attimo, ad immaginarla e a coglierne i suoi aspetti più significativi.
Infatti da subito capirete che la vita del pastore era sinonimo di miseria, di lavoro duro e che rendeva poco; era una vita sacrificata sia per lui che per la sua famiglia. La dice lunga la cura che aveva e doveva avere il buon pastore per il suo gregge; già, perché per molti versi, il rapporto di interdipendenza che si veniva a creare tra il pastore e suoi animali vedeva nascere una passione che andava al di là del suo lavoro. Al principio, la maggior parte dei pastori, si limitavano ad allevare in casa animali come le pecore, le capre, i maiali, qualche gallina e possedevano asini utilizzati per il trasporto di cose e di persone. Quindi si aveva una notevole produzione di latte, uova, carne e lana. Gli animali erano tenuti per lo più in un angolo della casa trasformato in stalla, mentre i più fortunati possedevano un piccolo ovile con annesso uno stazzo.
Da come mi è stato raccontato sia l’ovile che lo stazzo erano costruiti distanti dalle case per i seguenti motivi: lo stazzo doveva essere posto in pendenza per far fuoriuscire i liquami e i residui animali e vegetali e, secondo una credenza popolare quando il pastore si apprestava a fare il formaggio doveva essere lontano da occhi indiscreti in quanto il “malocchio” poteva compromettere la buona riuscita del formaggio. L’ovile, in genere, era costruito in muratura, doveva essere, necessariamente, esposto a mezzogiorno e, soprattutto, visibile dalla casa dove abitava il pastore, inoltre, l’entrata era chiusa da una porta e veniva utilizzato nei mesi invernali. L’ovile all’aperto, al contrario, era solo in parte coperto e doveva avere per recinto una siepe che impedisse agli animali di uscire.
Fuori dallo stazzo vi era il mungitoio, formato da quattro poli infissi nel terreno, coperto da foglie e al centro vi era una grossa pietra usata come sedia dal pastore durante la mungitura. Il mungitoio situato, di solito, tra due recinti formati da siepi di spine con due entrate, una comunicante con il mungitoio e l’altra con lo stazzo. Dalla prima entrata le pecore venivano spinte una alla volta verso il pastore che le bloccava con un cappio di legno (serviva a tenerle ferme) e le mungeva. Subito dopo la liberava la spingeva verso l’entrata opposta e ciò veniva ripetuto fino all’ultima pecora.
Dopo la mungitura il pastore si spostava nel luogo dove si apprestava, da solo o con l’aiuto della moglie e dei figli, a lavorare il latte appena munto. Con arte e abilità dalle sue mani il liquido bianco si trasformava in prelibatezze quali la morbida ricotta fresca o salata (da conservare) e in ottimi formaggi da mangiare freschi o da stagionare. Per la coagulazione del latte il pastore utilizzava il “caglio” che si ricavava dallo stomaco degli agnelli e dei capretti pieni di latte acido; a forma di sacco, legati sia dalla parte dell’esofago che dalla parte dell’intestino pendevano, per un certo periodo, dai tetti delle case per poi venire sistemati nei pressi del camino per farli maturare. Infatti la fuliggine di depositava sui cagli rendendoli arsi e neri così quando ne aveva bisogno il pastore li poteva utilizzare. Il recipiente dove veniva munto il latte, cioè la “secchia”, da questo viene trasferito nel “cttur”, una specie di grossa pentola con due manici laterali che permettevano di sospenderlo e di porlo sul fuoco. Il latte veniva girato con un arnese di legno, “r’menatur” con una delle estremità ingrossata e tondeggiante.
Dal latte di pecora o di capra o da entrambi in varia proporzione si ricavava il formaggio, le cui forme dette “matinate” e rappresentavano il prodotto ricavato dalla cagliata del mattino presto. La “matinata” quindi è chiamata così perché frutto della mattinata cioè si caglia sempre la mattina presto, ancora gocciolante di acqua e di siero, viene posto in una “fruscella” di forma, cilindrica e di varia grandezza, dove viene compressa con le mani dal pastore per far fuoriuscire il siero. Il formaggio prima veniva coperto di sale e così rimaneva per circa quindici giorni, trascorsi i quali veniva lavato con acqua tiepida, salato nuovamente e riposto nelle “fruscelle”. Quando il formaggio non assimilava più il allora veniva unto con olio e conservato perché era completamente maturo. Dal latte si ricavava anche la ricotta, che tutti noi conosciamo, e se si voleva conservare per farla stagionare veniva salata. I rimasugli di latte rimasto nella “secchia” da poco indurito, venivano manipolati a forma di palla e dati ai bambini ai quali piaceva tanto.
Nel lavorare il latte il pastore, direi, è il protagonista principale ma collaborano con lui la moglie e i figli che imparavano, da subito il mestiere, seguendo le orme del padre. Molti ragazzi, cioè quelli avviati ai lavori di pastore e di contadini, soprattutto, non hanno conosciuto l’età dei giochi e dello studio. I genitori, costretti dalla miseria, avviavano il figlio, ancora fanciullo, ad un lavoro affinché producesse un reddito, anche se misero, utile comunque ad aiutare la famiglia. Alcuni, appena adolescenti, gli venivano affidato il compito di guardiano delle pecore, capre, maiali, ecc…una vita durissima resa ancora più dura dalla giovane età. Il ragazzo, a volte, ancora bambino, era costretto ad alzarsi prima dell’alba e iniziare subito la giornata insieme al pastore. Dormiva su di un letto fatto da un sacco pieno di paglia o di foglie di granturco, poggiato a terra su tavole inchiodate a forma di letto. Il ragazzo aiutava a mungere gli animali, a preparare l’occorrente per la cagliata, preparare la legna da ardere, ecc…
Non appena terminati questi lavori sollecitava glia animali con il bastone e li spingeva al pascolo e durante tutto il giorno era costretto a corrergli dietro. Infatti doveva stare attento a che il gregge non calpestasse i terreni seminati, nel qual caso doveva andare a “pararlo”, cioè ad allontanarlo. Il lavoro diveniva ancora più pesante, di quanto già non lo fosse, nel periodo in cui nascevano gli agnelli e i capretti; infatti, quando le pecore partorivano mentre erano al pascolo, dovevano aiutare il pastore a portarli sulle spalle e nello stesso tempo non dovevano trascurare di sorvegliare il resto del gregge.
Dopo una lunga giornata di lavoro finalmente rientrava a casa, sistemava il gregge aiutava, se gli veniva chiesto, a mungere o sbrigare altri lavori, si scaldava, mangiava e andava subito a dormire. E’ facile capire che già da bambino inizia a subire le pene amare, anzi, molto amare, di una vita fatta di rinunce, di privazioni, se era apprendista prendeva un misero stipendio mentre se era figlio del pastore niente e restava analfabeta dal momento che l’unica scuola era quella della vita, una vita durissima di cui, ancora adolescente, ne diventava maestro. Il lavoro del pastore, quindi, consisteva nel portare il gregge al pascolo (“a pasce” in dialetto), cioè a brucare l’erba fresca se il tempo era bello, altrimenti, lo lasciava nel recinto o nell’ovile a mangiare il foraggio e l’erba raccolta in precedenza. La data che veniva scelta per la salita ai monti era, in genere, agli inizi di giugno (tale data poteva variare a causa del clima).
Le pecore e le capre venivano condotte dal paese ai monti perché questi luoghi erano ricchi di quell’erba che dava al formaggio sapore e fragranza e alla ricotta gusto e tenerezza. L’alpeggio durava per tutta l’estate e verso gli inizi di settembre uomini e animali facevano ritorno in paese. La vita per i pastori che vivevano sulle montagne era estremamente faticosa. Vivevano lontano dal mondo soggetti agli attacchi dei lupi e alle varie condizioni climatiche. Infatti, quella che a valle era una piccola pioggia a quelle altitudini diventava una vera e propria tempesta di pioggia, grandine e, qualche volta, neve. I fulmini erano una delle cause più frequenti di morte tra le pecore. L’acqua era poca e spesso si era costretti a bere dalle pozzanghere; però i pastori più esperti conoscevano bene dove potersi rifornire d’acqua. Infatti gli antichi avevano scolpito nella roccia delle piccole cavità dove si raccoglieva l’acqua; queste cavità, però, erano piene di acqua sporca e per poterla bere bisognava filtrarla con un fazzoletto per eliminare le impurità e i vermi che vi si formavano. I pastori erano soliti posizionarsi nei punti più alti così controllavano meglio il loro gregge che pascola più in basso e spesso producevano direttamente in montagna il formaggio che poi caricavano sui muli e lo portavano a valle. Ogni giorno cambiavano il luogo dove avevano pernottato la notte precedente e sistemati nel nuovo posto come prima cosa piantavano le reti in cerchio e vi sistemavano le pecore dopo il pascolo e se non c’era dei rifugi per loro li preparavano al momento.
Durante la notte ardeva sempre il fuoco utile sia per scaldarsi che per tenere lontani i lupi (i quali, come è noto, temono il fuoco). Mentre il pastore dormiva i cani vegliavano il gregge per evitare l’assalto, una volta assai frequente, dei lupi. I cani portavano al collo un collare sulla cui parte esterna sporgevano dei lunghi aculei terminanti a punta come difesa in caso di lotta con i lupi, i quali azzannano le prede al collo. Anche i cani vivevano in condizioni estreme e il loro pasto era costituito dai pochi resti dei pasti dei pastori e dal siero del latte con cui si produceva il formaggio.
Questa breve transumanza, che spesso si svolgeva solo entro i confini della proprietà dei pastori, serviva per concimare organicamente i terreni con gli escrementi degli animali e per sfruttare i pascoli che, d’estate, data la mancanza di acqua, erano scarsi. Il pastore godeva di un pò di libertà e di riposo durante la sosta degli animali e si dedicava a fare piccoli lavori creando arnesi, strumenti, ecc…, usando la scure e il coltello “a croce” per intagliare il bastone che portava sempre con sé come fosse uno scettro. All’inizio della stagione fredda i pastori transumavano verso la pianura, di solito verso la Puglia.
Tale usanza, oggi quasi del tutto scomparsa, nei secoli scorsi condizionava, pesantemente, la vita del pastore e del resto della famiglia. Tutto ciò avveniva tramite dei sentieri chiamati “tratturi” e il viaggio durava giorni e si effettuavano soste in luoghi prestabiliti dove dovevano costruirsi ricoveri e tutto il necessario per la mungitura, ecc…
A Monteforte iniziava la discesa verso il tratturo e lì la mandria, piano, piano, scompariva dalla vista di chi rimaneva a Capracotta in una malinconica attesa e preoccupazione perché la vita qui era condizionata dal clima di alta montagna dove erano frequenti ed abbondanti le nevicate che causavano lunghi periodi di isolamento. I pastori durante la transumanza in Puglia non tornavano mai a casa salvo se si verificavano disgrazie quali la morte di un familiare. Nei generosi pascoli del Tavoliere nascevano agnelli ben nutriti alcuni venivano fatti crescere per rinnovare o incrementare il gregge, altri venivano uccisi per mangiarli durante le feste pasquali, altri, ancora servivano per preparare il caglio utilizzato, in seguito, per la produzione del formaggio e della ricotta.
A maggio le pecore venivano sottoposte al lavaggio del vello e alla tosatura. Ai primi di giugno le mandrie ripercorrevano il tratturo per tornare ai pascoli dei nostri monti ricchi di erba, qualitativamente, più pregiata. All’arrivo delle greggi, davanti il Santuario della Madonna di Loreto, esplodeva una festa di saluti, baci, abbracci, suoni di campane e campanacci, unito ad un corale belare delle pecore e all’abbaiare dei cani.
Pian piano la festa si scemava e ognuno tornava nelle proprie case e si udivano solo i fischi dei pastori che richiamavano i cani affinché facessero procedere le pecore nei vari recinti o ovili così si poteva procedere alla mungitura. Con le pecore, inoltre, arrivavano, nel paese, diversi quantitativi di lana cioè la lana che i pastori ricevevano in dotazione e che le loro donne provvedevano a lavorare, filare e a tessere. I pastori risiedevano otto mesi in Puglia e quattro mesi a Capracotta.
Le architetture rurali in pietra per millenni resistenti al tempo e all’uomo, ci conducono in un cammino secolare in cui il territorio è stato lentamente trasformato, disegnato e sfruttato in ogni suo angolo, anche il più impervio, per la costruzione dei paesi, per la lavorazione dei campi e per l’allevamento degli animali. Il pastore realizzava la sua dimora sia lungo le vie della transumanza, per abitarla per i lunghi periodi che vi sostava, che sulle montagne, in cui soggiornava da giugno a settembre. Le innumerevoli costruzioni in pietra caratterizzavano il paesaggio e coloravano i campi incorniciando sentieri e strade.
Le pietre erano lì, sulle montagne, si ricavavano dalla roccia e si lavoravano con l’uso di semplici strumenti cioè il piccone e la mazzola, disponendole, poi, a scaglie l’una sull’altra a formare quei ricoveri che servivano da riparo. Nel mondo pastorale la casa in pietra (“tholos”) era essenzialmente di due tipi: la residenza stabile, in cui la famiglia del pastore viveva tutto l’anno occupandosi dei campi e di tutto ciò che gli apparteneva e, il ricovero provvisorio, che costruiva lungo i percorsi della transumanza per abitarvi temporaneamente e stagionalmente.
La casa del pastore era, di solito, collegata alla stalla e al fienile, realizzata su due piani con una scala esterna quando lo spazio antistante all’abitazione lo consentiva, l’ingresso centrale era posto dinanzi alla scala e la cucina era facilmente accessibile dall’ingresso stesso e la scala, interna, conduceva al piano superiore dove si trovavano le camere da letto. Oppure era strutturate su più piani, generalmente tre, dove al piano più basso, con accesso diretto, troviamo la stalla e la rimessa degli attrezzi con il fienile ricavato su di un soppalco in legno accessibile dall’interno con una scala a pioli e al piano superiore troviamo la cucina e le stanze da letto. Al di sotto del tetto, la cui copertura era, in genere, fatta di pietre lisce a spiovente, venivano conservati il grano e, a volte, anche il fieno.
Dunque la vita del pastore era una vita fatta di solitudine e di duro lavoro, non esistevano, come avete potuto leggere, né feste, né ferie, né riposi e con acqua, neve, vento e sole le pecore dovevano essere portate a pascolare, essere accudite ed infine munte. Da ciò si deduce che la vita del pastore non è stata mai facile però ce l’ha sempre fatta …
Emilia Mendozzi