Anna con me sul banco di scuola a Capracotta
Cara Anna,
di recente ho appreso che si svolge annualmente una singolare competizione internazionale che prevede l’invio di una lettera alla persona amata, simbolicamente indirizzata alla famosa “Giulietta” di Shakespeare: e sono rimasto molto sorpreso perché pensavo che ormai “carta e penna” fossero un lontano ricordo dei più vecchi come noi.
Al contrario il gran numero di partecipanti a quel concorso lascia intravedere una riscoperta del passato, sebbene prevalgano altri e più moderni mezzi di comunicazione, come i cosiddetti “social”.
Mi sono tornate in mente le tante lettere scambiate con te, Anna, nell’ormai remoto periodo del nostro fidanzamento e così, nella ricorrenza di “San Valentino” e della “festa degli innamorati”, ho avuto l’idea di rivolgermi di nuovo a te in modo analogo: stavolta ripercorrendo i nostri più recenti e difficili anni vissuti insieme.
Certamente non riuscirò ad evitare che le mie parole siano permeate di mestizia ma spero che, nonostante tutto, esse esprimano ancora una volta tutto il mio amore per te; perciò non me ne vorrai se parlerò del mio doloroso impatto con la tua patologia, ricordando la formula stessa del matrimonio che dice: “… nella salute e nella malattia”.
La maggior parte della mia professione di medico è stata possibile grazie al tuo prezioso contributo, ma anche l’aiuto umano che ho cercato di assicurare a parenti ed amici sarebbe stato inimmaginabile senza il tuo sostegno: dalle occasioni più banali, a quelle più impegnative, spesso segnate da prolungati ricoveri ospedalieri e persino dalla dolorosa scomparsa di diverse persone care.
Tra le prime, ricordo simpaticamente una volta di tantissimi anni fa’ in cui ti sei trovata ad affiancarmi nel soccorso urgente, a Capracotta, per un caro amico che, cadendo, aveva riportato delle ferite lacero-contuse superficiali; avendo con me tutto ciò che occorreva, riuscii ad applicargli tra l’altro alcuni punti di sutura, ma senza considerare la tua possibile reazione emotiva.
Così, mentre stavo già ringraziandoti per la collaborazione, mi sono accorto che sbiancavi in viso e quasi perdevi conoscenza: era una classica, semplice sincope vaso-vagale tardiva, per cui fu sufficiente farti sdraiare con le gambe sollevate; ma… non posso certo soffermarmi su tutte le vicende vissute l’uno accanto all’altro in più di 50 anni: “nella buona e nella cattiva sorte”.
È invece inevitabile, Anna, che il mio pensiero ritorni alla tua grave malattia, fin da quando mi era parso di coglierne i segni iniziali, ormai tanto tempo fa: assai prima del terribile evento sismico all’Aquila, “spartiacque” negativo di tanti accadimenti, ma senza conseguenze dirette per la nostra famiglia.
Tutto era cominciato allorquando tu, pur restando vivacissima e attiva sia come insegnante che come madre di famiglia, sembravi talora ripetere, senza motivo, la stessa cosa o la stessa frase: specie quando c’era l’occasione di incontrare amici o persone che non vedevamo spesso; per me tutto ciò era inspiegabile, tanto più avendoti sempre considerata un “computer ante-litteram” (ti chiamavo simpaticamente “IBM”!) e non potevo che esserne allarmato.
Eri ancora tu a gestire nei minimi dettagli la complicata nostra agenda quotidiana e, soprattutto, la mia, tanto è vero che ho sempre beneficiato oltremodo della tua “intelligenza pratica”: fino al punto di apparire spesso, come giustamente dicevi, “con la testa fra le nuvole”; solo più tardi cominciai davvero a preoccuparmi di altre, ancora modeste, turbe mnemoniche.
Così, tra momenti di speranza e di sconforto, giunse un periodo ancor più travagliato per tantissime ragioni che sarebbe impossibile enumerare; eri già in pensione, Anna, ma anche la tua professione di insegnante ti era costata molto sacrificio: ad esempio da pendolare, per circa 9 anni, quando percorrevi in macchina oltre 100 Km. al giorno svegliandoti prestissimo al mattino.
Nulla di sostanzialmente diverso anche in occasione del sisma 2009 quando io pure, da circa un mese, avevo lasciato l’attività ospedaliera; fu grande, naturalmente lo spavento di fuggire da casa quella notte con le scosse di terremoto e la necessità che, insieme, aiutassimo alla meglio mamma Cesarina, di 97 anni, e mio fratello Carlo: ci accompagnava, con il marito, anche Sara che era quasi a termine della sua prima gravidanza.
Seguirono mesi assai difficili con il trasferimento provvisorio a Montesilvano e ti trovasti ad aiutare non solo Sara e la sua bimba neonata, Emma, ma anche Daniela che, a sua volta, aveva dato alla luce un’altra bambina, Elda.
Nei mesi e negli anni successivi divennero assai più frequenti le occasioni in cui mi accorgevo delle tue maggiori difficoltà, Anna: e non solo sul piano spicciolo della memoria, ma soprattutto su quello cognitivo-comportamentale; non eri più in grado di guidare la macchina e soprattutto non riuscivi ad organizzarti, neppure minimamente, per accudire la nipotina: quando mi accorsi che non potevi più prepararle neppure una minestrina, fui preso dall’angoscia considerandolo il peggiore indicatore della tua grave e progressiva encefalopatia degenerativa.
Nello stesso periodo, un giorno che ti avevo lasciato dalla parrucchiera con l’impegno di venirti a riprendere in macchina più tardi, ti sei avviata da sola verso casa e vagavi disorientata nel breve tragitto necessario: io ti ho allora raccolto dal ciglio della strada, pensando anche al rischio che avevi corso di essere persino investita da una automobile; intanto non eri quasi più in grado di vestirti da sola e tanto meno di lavarti, spesso dimenticando anche i nomi delle persone più vicine.
Preferii che fosse Daniela ad accompagnarti per una visita neurologica e furono volutamente “mitigate” le conclusioni diagnostiche dell’amico specialista: di recente infatti, ho riletto la mia relazione per quella consulenza, in cui già prefiguravo le tue successive manifestazioni cliniche; ad eccezione, in verità, per la progressiva e infine completa paresi degli arti inferiori e soprattutto per la perdita, altrettanto completa, dell’eloquio: mi sembrava impossibile che io non potessi più nemmeno scambiare una parola con te, come è invece avvenuto!
Ora comprendi, Anna, che tutto deporrebbe per un bilancio quanto mai negativo dei nostri anni più recenti: al punto da chiedermi davvero se valesse la pena di rattristarti, tanto più per la festa di “San Valentino”; mi sono convinto, invece, che ci rimanga un grandissimo motivo di conforto: il prodigio di essere insieme, dopo tanti anni, e di poterci tenere per mano come fossimo ancora nello stesso banco della scuola elementare a Capracotta.
Così, vale la pena che io ripeta a me stesso prima ancora che a te le parole del professor Alessandro D’Avenia, tratte dal suo libro “L’arte di essere fragili”; sono quelle che ho utilizzato lo scorso anno per le nostre “nozze d’oro”: “rimane al centro del mio cuore lo stesso, grande Amore che nulla, nemmeno la malattia può rovinare: l’Amore che cura, l’Amore che sostiene, l’Amore che parla e che tace, l’Amore che fa sognare, l’Amore che salva perché è fedele e duraturo”.
Voglio infine augurarmi, Anna, “come per incantamento”, che tu possa sempre sentirmi vicino; chissà che, intanto, non riesca anch’io ad apprendere il linguaggio della tua malattia: con la sua dolcissima “nenia” fatta di monosillabi (potenza dell’Amore!),
Ti voglio tanto bene.
Aldo Trotta