Tempo fa ho cercato di chiarire a me stesso, prima ancora che agli altri, le ragioni del fortissimo legame con le mie “radici” montanare: non sostenuto, ne sono certo, da una puerile nostalgia né dall’impulso di isolarmi come un vecchio elefante, ma piuttosto dalla insopprimibile esigenza interiore di chiudere il cerchio della mia vita per ricongiungermi, anche fisicamente, a quei luoghi; non credo, tuttavia, di esserci riuscito e torno spesso a chiedermi il perché di questo “irresistibile richiamo”: specie da quando, conclusa la mia attività, mi sono reso conto a malincuore di non poter rientrare stabilmente a Capracotta come avevo sempre desiderato.
È superfluo, peraltro, ripetere che si tratta del paese in cui sono nato e vissuto fino all’adolescenza: per seguire poi il destino di tanti della mia generazione, costretti a subire il doloroso distacco dai suoi monti,
Mi sono pure domandato se questo insopprimibile anelito nascondesse una istintiva propensione per la vita “solitaria”: pur non rassomigliando la mia, neppure lontanamente, ad una vocazione monastica; eppure in tantissime occasioni, considerando che porto il nome del venerato “eremita” Sant’Aldo, ho ironicamente affermato che il più grande errore della mia vita è stato quello di non seguire il suo esempio: magari rifugiandomi nella grotta di “Colle San Nicola” o in quella di “San Luca”, come mi piaceva fantasticare.
Del resto i monaci di San Colombano di Pavia, cui apparteneva Sant’Aldo, non conducevano una vita eremitica in senso stretto ma, un po’ precorrendo i “benedettini”, alternavano la meditazione solitaria alle consuete attività quotidiane per guadagnarsi da vivere; l’eremita insomma, si allontanava temporaneamente dagli uomini riempiendo la solitudine esteriore con la presenza di Dio, ma non si estraniava dalla comunità: cui contribuiva anzi, utilmente, con la sua vita e la sua carità.
In tutta sincerità ho sperato che, dopo tanti anni di lavoro ospedaliero e di vicissitudini diverse, io meritassi un biglietto-premio per il viaggio di ritorno alle mie “radici” e, con esse, al mio equilibrio interiore; al contrario, ho visto allontanarsi sempre più questa prospettiva ideale, come un “miraggio” evanescente.
Più che comprensibili perciò, la mia simpatia e la mia devozione per Sant’Aldo, di cui porto il nome, vissuto forse nell’ottavo secolo (?) e che, di mestiere, faceva il “carbonaio”; veniva infatti rappresentato con le mani e il volto anneriti, proprio come apparivano nelle vecchie fotografie i nostri boscaioli ed i carbonai delle tante famiglie di Capracotta: ad esempio i Giuliano, i Carnevale, i Santilli e diverse altre.
D’altro canto, è molto apprezzata e interessante la documentazione storica che confermerebbero la possibile origine longobarda del nostro paese: a prescindere dalla leggenda di un cocchio trainato dalle capre e che forse, a Capra-cotta, avremmo preferito fosse una fantastica… slitta per la neve (?).
Scherzi a parte, ho appreso di recente che lo stesso nome e la città di Pavia in cui Sant’Aldo sarebbe stato sepolto, suggeriscono una sua origine dai “Longobardi” e, nell’antica lingua di questo popolo, la parola “ald” significherebbe “vecchio”; non vi è aggettivo più adatto alla mia attuale, venerabile fascia di età ma è assai meno credibile che, nel mio caso, di questo antichissimo nome si confermi un altro e più lusinghiero significato: quello di “saggio”.
Se lo fossi davvero infatti, secondo le mie figlie, sarei meno testardo nella mia smania di “fuga” e soprattutto non dimostrerei così poco spirito di adattamento in un periodo così travagliato come quello attuale e persino di guerra: che tu pure, mi rimproverano, hai sperimentato quando eri piccolissimo a Capracotta!
Faccio sempre molta fatica a convincere tutti che il mio non è un “capriccio” senile, ma una pulsione inarrestabile di cui è molto difficile una lettura razionale; né si affievolisce il mio anelito per le tante voci, anche fraterne, che sottolineano la grande diversità e lo stesso disagio attuale di Capracotta rispetto al passato: non tanto e non solo per il progressivo spopolamento, quanto e soprattutto per i mutamenti socio-culturali intervenuti negli ultimi decenni.
Continuo così, senza tregua, ad inseguire la mia “chimera” e ricordo con nostalgia le ultime occasioni in cui, anche solo scorgendo da lontano il profilo delle nostre case, il tono del mio umore si innalzava incredibilmente: tanto da meravigliare moltissimo le stesse mie figlie.
A tale proposito mi è sembrato molto illuminato lo scrittore Michel Onfray sebbene il suo libro, “Filosofia del Viaggio”, si riferisca a un diverso genere di “radici”; questo autore infatti, è ampiamente citato nel volume della dottoressa Letizia Sinisi sulla riscoperta delle proprie origini da parte dei discendenti di emigrati all’estero.
Con la premessa quindi, del resto è ben nota, che l’intera vita sia paragonabile ad un viaggio, mi sono parse quanto mai significative le sue parole che riporto testualmente:
Abitare transitoriamente non significa affatto abitare, né significa aver stabilito la propria dimora.
Abitare significa soffermarsi intorno al focolare, vicino al fuoco che riscalda, protegge e ripara.
Esse mi aiutano a comprendere perché, anche in circostanze dolorose come la scomparsa recente di mio fratello Carlo, io sia riuscito un po’ ad arginare, o meglio a “riparare”, la mia angoscia restando in silenzio davanti al camino acceso: naturalmente quello della casa in cui sono nato, l’unica che considero veramente mia; nelle altre infatti, continuo ad “abitare transitoriamente” o, peggio ancora, a sentirmi come in esilio.
Ripenso anche alle parole di papà Ottaviano cui ho chiesto una volta, nel periodo estivo in cui era a Capracotta perché si fermasse a guardare così a lungo, dalla finestra, i nostri monti; mi rispose con incredibile serenità: “faccio il pieno di aria natia; ti dispiace?”: ed io notai, come si diceva un tempo, che mi sorrideva “con gli occhi”.
Ho appreso di recente che un concittadino deceduto in Canada si era sempre rifiutato di tornare a Capracotta pur avendone la possibilità: non avrebbe sopportato il dolore di doverla poi lasciare di nuovo; anch’io, ripensandoci, mi rendo conto che, di solito, mi comporto allo stesso modo: pur non avendo attraversato l’oceano in cerca di lavoro.
Ho avuto ancora l’occasione di leggere il racconto di un altro caro emigrato in Canada, Giovanni Carnevale; per oltre un decennio dalla sua partenza, ogni sera faceva un giro immaginario di tutto il paese perché temeva di dimenticare la fisionomia delle persone che aveva lasciato: davvero incredibile!
Avviandomi ora al termine delle mie riflessioni, ho il fondato timore di non essere stato più convincente del solito (?); mi conforta solo la certezza che nessuno possa cancellare dai miei ricordi lo scenario incantevole di Capracotta, specie quello fiabesco della neve che, come ho sempre ricordato, ha riempito di magia la mia infanzia.
Riecheggiano così, nel mio cuore, le parole di una splendida canzone di Franco Battiato intitolata, guarda caso, “Un irresistibile richiamo”:
Era magnifico quel tempo, com’era bello
quando eravamo collegati, perfettamente,
al luogo e alle persone che avevamo scelto,
prima di nascere.
E ritorna il calore di quel caminetto, cullato dalla musica come un bambino e mi accorgo piacevolmente di riascoltare anche il suono di quelle “radici”:
un suono di campane
lontano, irresistibile, il richiamo
che invita alla Preghiera del tramonto.
Recito infine una “AVE MARIA” e mi affido alla paterna protezione di Sant’Aldo cui spero, sia pure indegnamente, di rassomigliare almeno un po’ (?): sebbene io non abbia il viso sporco di fuliggine come gli antichi carbonai di Capracotta
Aldo Trotta