In questo lungo periodo nel quale, a prescindere dalla pandemia, sono stato e sono tuttora costretto a rimanere quasi sempre a casa, ho trovato spesso conforto cimentandomi nel ricordo scritto di persone che ho avuto accanto nella mia vita: non solo appartenenti alla cerchia dei miei parenti, ma anche a quella di amici e conoscenti che animavano il fiabesco mondo della mia infanzia e della mia adolescenza a Capracotta.
Oggi, del tutto casualmente, ho avuto occasione di rivedere un breve filmato dedicato ai locali in cui, nel passato remoto, si trovava il piccolo “Carcere” di Capracotta; questi ultimi, tuttora facilmente raggiungibili dalla gradinata di via Roma verso la Chiesa Madre, in anni ancor più lontani avevano ospitato una istituzione religiosa denominata “Congrega della Visitazione e della Morte”.
Molti forse, tra i giovani, ne ignorano persino l’esistenza, ma sull’architrave in pietra del suo portone compare un inquietante bassorilievo con il teschio e le due classiche tibie incrociate; infatti, gli adiacenti sotterranei della Cattedrale e del suo sagrato erano stati forse utilizzati anche come Cimitero (o come Ossario?) dopo l’epidemia di Peste nel 1656.
Non so davvero da quanto tempo esistesse una struttura carceraria a Capracotta, ma vi era sempre rimasto attivo un ufficio giudiziario, la Pretura, e ciò spiegava la presenza occasionale e temporanea di qualche detenuto, di solito uno o due al massimo; ricordo il grande scalpore, una volta, per il fatto che ci fosse una donna ma, nell’ambiente socio-culturale di allora, si trattava in genere di reati abbastanza modesti.
Stamani sono rimasto molto colpito dall’aspetto di quegli austeri locali, magistralmente restaurati da esperti artigiani, specie muratori e falegnami di Capracotta: sono infatti divenuti una moderna biblioteca parrocchiale, con pregevoli scaffalature in legno che accolgono i tanti, antichi documenti della nostra comunità e che ci restituiscono, soprattutto, un prezioso tassello della nostra storia.
Ripensavo, naturalmente, a com’erano nel passato quegli ambienti così carichi di fascino, con i loro suggestivi soffitti a volta, che io conoscevo bene per averli visitati diverse volte dopo la soppressione del carcere: ricavati da vere “grotte” naturali nella roccia, ne ho rivissuto l’atmosfera di grande mistero, sebbene fossero molto luminosi.
Riflettevo poi, soprattutto, al nonno materno di mia moglie Anna, Giovanni Venditti, r’cuarcɘriérɘ (“il carceriere”), appellativo esteso poi a tutta la sua famiglia; non posso certamente ricordarlo come persona perché è morto quando avevo solo tre anni di età, ma ho sentito tanto parlare di lui e vorrei contribuire a tener viva anche la sua memoria: imitando un po’ il caro Domenico D’Andrea che ha mirabilmente raccontato di tanti personaggi capracottesi nel suo bellissimo, commovente volume intitolato “Sul filo della memoria”.
Solo di recente, da mio cognato Giovanni, ho appreso che l’incarico di custode del carcere rappresentava per il nonno l’equivalente di un vitalizio statale: durante il servizio militare infatti, in piena, prima guerra mondiale, aveva riportato una grave ferita che lo aveva costretto a utilizzare una protesi oculare e soprattutto ad abbandonare il suo tradizionale lavoro di pastore; si trattava peraltro di un impegno limitato che in seguito gli aveva consentito di gestire con la moglie, nonna Cristina, una piccola attività commerciale nel settore enogastronomico: favorito, per di più, dal fatto che la sua abitazione e lo stesso piccolo negozio fossero adiacenti all’edificio del carcere.
Mi sono tornati in mente anche alcuni di quei reclusi: che soprattutto nella stagione estiva, compatibilmente con le grosse inferriate, passavano il loro tempo alla finestra ed era consuetudine di molti concittadini fermarsi a chiacchierare amabilmente con loro, come farebbero dei vecchi amici.
Di uno in particolare mi rammento, un giovanottone grande e grosso di origine campana che si chiamava Mario, divenuto ospite un po’ troppo abituale di quella prigione; intratteneva i passanti che formavano spesso un capannello, cantando a squarciagola il suo vasto repertorio di canzoni napoletane: quasi non fosse un detenuto, ma un singolare “artista di strada” senza il proverbiale raccoglitore per le monete.
Mi sembra anzi di riascoltarlo: incantava l’intero quartiere circostante ed i suoi numerosi abitanti di allora, proprio come di recente qualcuno ha cercato di fare allietando con la musica dalle terrazze i tanti “reclusi” per la pandemia: strano che allora fosse lui solo obbligato a restare in “lockdown”!
Ripensavo poi a tutto ciò che già conoscevo del nonno Giovanni, il mitico cuarcɘriérɘ e soprattutto alla sua grande, quasi fraterna bontà nel rapporto con i detenuti a lui affidati che trattava davvero come fratelli o come figli; si preoccupava ad esempio di mitigare il loro disagio dovuto al freddo, spesso molto intenso a Capracotta, con un grande braciere acceso di cui sapeva evitare ogni esalazione pericolosa e soprattutto con un provvidenziale “scaldino” che parimenti riforniva più volte al giorno.
Ancor più commovente il fatto che, dovendo provvedere anche ai loro pasti, lo facesse con grande professionalità; come in un piccolo ristorante infatti, ogni mattina chiedeva loro cosa preferissero da mangiare; davvero incredibile, ma assolutamente vero secondo la testimonianza della figlia, la mia compianta e cara suocera, Concetta; che mi raccontava pure del suo compito di vivandiera supplente, specie quando c’era tanta neve, sorridendo del fatto che il menù di famiglia era spesso identico a quello del carcere e viceversa.
Ogni volta che abbiamo avuto occasione di parlarne, mi sorprendeva molto che il nonno Giovanni fosse riuscito ad esprimere tanta paziente disponibilità; sapevo infatti che aveva sempre sofferto di una grave patologia metabolica dell’acido urico, comunemente denominata “gotta”: con frequenti e dolorose crisi di artrite e soprattutto con ingravescente insufficienza renale cronica diventata poi, verosimilmente, la sua causa di morte in età ancora giovanile; è opinione corrente infatti, sebbene non dimostrata, che i “gottosi” siano di solito persone molto irascibili e colleriche per istintiva reazione alla loro malattia e basta pensare ai tanti “pazienti illustri” della letteratura, spesso erroneamente considerati inclini ad eccessi alimentari di ogni genere.
Nulla di più falso, in particolare per il nonno Giovanni definito invece, da tanti che lo conoscevano bene, assai morigerato e soprattutto attento ai bisogni altrui: quindi, come si dice, un uomo di buon cuore; risulta infatti che molto spesso, quando si accorgeva di concittadini che, a motivo della loro miseria, oltrepassavano senza fermarsi la soglia del suo negozio, li chiamasse in disparte con una scusa: soltanto per consegnare loro, in tutta segretezza, un pacco-dono di viveri.
Come ricordava mia suocera, specie a cavallo del secondo conflitto mondiale, la crisi economica era grave e molti versavano nella più assoluta indigenza; così il nonno Giovanni non esitava a ridurre o persino a dimezzare il debito accumulato da diversi di loro: e non solo in occasione della festa più grande di Capracotta, quella dell’Otto Settembre in cui molti erano maggiormente generosi.
Così, a prescindere dall’attuale ed assai diverso periodo storico, è davvero difficile immaginare un “carcere” come quello appena descritto: una specie di avveniristica casa-famiglia per detenuti; sono certo, invece, che resterà ineguagliabile il profilo “sui generis” del nonno Giovanni,
“Giuannɘ ‘r cuarcɘriérɘ”:
il cui esempio è forse racchiuso in queste parole di “vita eterna”:
“beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt. 5-7)
Aldo Trotta