C’era una volta un vedovo, il quale, pur avendo due figliuoli giovanetti, un maschio e una donna, volle a tutti i costi riprender moglie. E così fece. Ma i figliuoli erano mal visti dalla matrigna, tanto è vero che costei, sgravatasi di un maschietto, seppe tanto calunniarli, da indurre il marito a liberarsene.
I due fratelli, insospettiti, potettero scoprire il piano nefando, e corsero dalla buona zia e l’informarono del pericolo che correvano.
La vecchia li baciò e, rassicuratili, disse: «Quando sarete nella boscaglia, ognuno di voi gitterà ad ogni passo un chicco del granturco, che io vi ho messo in un sacchetto: vi sarà facile così di ritrovar la via». Abbandonati i bimbi nella boscaglia, ne uscirono senza fatica, con grande meraviglia dei genitori, i quali decisero di darli in pasto alle belve. I due fratelli, che avevano tutto udito, tornarono a raccontar tutto alla buona nonna, e la vecchietta loro consigliò di lasciar crusca sui propri passi.
Purtroppo, però, quando i due giovanetti furono lasciati soli nel bosco, il vento portò via la crusca, ond’essi si smarrirono. Camminarono sino a tarda ora, arrestandosi davanti ad una fontana, perché assetati. E, mentre il maschio si accingeva a bere, apparve improvvisamente un bel vecchietto, il quale disse: «Per carità, non bevete di cotesta acqua, altrimenti diventerete pecorelle con le corna d’oro». Ma, Beppe, così chiamavasi il maschio, volle bere e lì per lì fu cambiato in pecora.
Figurarsi come rimanesse la sorella! La poveretta seguitò la sua marcia verso l’ignoto, seguita da Beppe, ossia dalla pecorella dalle corna d’oro, come d’ora innanzi la chiameremo. Dopo aver camminato per vari giorni, nutrendosi di erbe, giunsero alla capitale di un gran regno.
La fanciulla, Elena, che era bellissima, e più l’era diventata per non aver bevuto di quell’acqua fatale, invaghì di sé l’erede al trono. Quando a Corte si riseppe dell’innamoramento del principe, avvenne il finimondo, ma l’erede al trono tenne duro, tanto che ottenne dalla famiglia reale il consenso di sposare Elena. Costei, impose come condizione che la pecorella non dovesse separarsi da lei.
Le nozze furono celebrate con gran pompa. Dopo nove mesi la principessa era prossima a partorire. Nei giorni vicini allo sgravo, una cameriera, annoiata delle cure che richiedeva la pecorella dalle corna d’oro, pensò di toglier di mezzo lei e la principessa. Invitò una sera costei a dar quattro passi sulla loggia, che dava sul mare, per godere il meraviglioso spettacolo del tramonto del sole.
Còlto il momento in cui l’augusta padrona era curvata, le confisse in capo uno spillone. La principessa cadde svenuta, e l’infame ne profittò per buttarla a mare, dove morì. La brutta megera ebbe la sfacciataggine di mettersi a letto, al posto della principessa, ed a chi meravigliavasi del cambiamento di viso e della diversa voce, rispondeva: «È venuto il sole e cambiommi colore- è venuto il vento e cambiommi l’accento».
La pecorella, intanto, che con terrore aveva assistito alla morte della sorella, angosciosamente belava da mane a sera. E la falsa principessa di quei lunghi belati profittava, scongiurando tutti di ammazzare la pecora oramai importuna.
Grande fu la meraviglia del principe per questo repentino cambiamento della supposta moglie; pure, ordinò che la pecorella dalle corna d’oro venisse ammazzata. Questa, intanto, esterrefatta, sulla loggia, diceva:
- Sorella, mia sorella, ora affilano le coltella, ora lavano il bacino- per tagliarmi il cannarino.
Tosto una voce velata uscì dal mare:
- Fratello mio, fratello mio, non posso aiutarti, perché mi rovo nel ventre di un grosso pescecane, vicino alla reggia, ed ho in mano due bambini.
Il Principe, che si trovava in quel momento a passare di lì, udì tutto e, vinto dalla curiosità, fece pescare il pescecane, donde viva uscì la principessa con due gemelli, Il Principe, saputa la dolorosa storia, indignato, fece ardere in una botte di catrame la perfida cameriera. La pecora colle corna d’oro, grazie all’intervento dell’ignoto vecchietto, tornò ad essere Beppe, e tutti uniti vissero felicemente.
L’Anonimo finì: «A me diedero una moneta bianca ed un pugno di confetti».
Oreste Conti
Fonte: O. Conti, Letteratura Popolare Capracottese, 2a Edizione, Editore Luigi Pierro, Napoli, 1911