Come ho già avuto modo di ricordare, questo periodo di particolare isolamento per la pandemia da COVID 19 è stato preceduto da diversi anni in cui il mio era già, soprattutto per ragioni di malattia in ambito familiare, un regime di semireclusione in casa; è stato perciò istintivo, anche per la mia fascia di età, rivolgere il mio pensiero ai ricordi del passato: complice la maggiore disponibilità di tempo e soprattutto la riscoperta di oggetti personali, di documenti e soprattutto di vecchie fotografie.
A fronte di tale imprevedibile opportunità, era stato certamente svantaggioso il trasferimento di residenza, che mi ha procurato spesso la delusione, emotivamente assai negativa, di non riuscire a trovare qualcosa di cui mi ero appena rammentato e che avevo lasciato altrove.
Nei giorni scorsi, al contrario, ho riavuto in mano due vecchie cartoline postali scritte da mio nonno paterno, Carmine, che non ho avuto la fortuna di conoscere perché scomparso prima della mia nascita: spedite da Capracotta oltre 90 anni fa’, erano indirizzate a mio padre Ottaviano che, in quel periodo, lavorava a Pescara insieme allo zio Romeo; mi piace anzi ricordare che mi erano state regalate, insieme ad altre, dal figlio di mia cugina Gilda, il caro e compianto Gian Mario Fazzini.
È comprensibile, e me ne dispiace, che io non sia bene informato del contesto storico e delle ragioni che avevano indotto papà ad allontanarsi da Capracotta: ma non è difficile intuire che la sua decisione fosse assolutamente in linea con lo straordinario spirito di iniziativa o, come si direbbe ora, di “resilienza “dei capracottesi in generale.
Va considerato infatti che anche allora, dopo la prima guerra mondiale, si stava cercando faticosamente di uscire dalla famosa crisi economica del 1929 ed è già tanto, io credo, che mio padre non fosse stato costretto ad emigrare all’estero, come alcuni suoi cugini in Venezuela ad esempio, o come il cognato negli Stati Uniti d’America.
Sono comunque sicuro che fosse animato non solo e non tanto dalla ricerca di un lavoro migliore, quanto e soprattutto da un insopprimibile anelito di allargare l’orizzonte delle sue prospettive; da semplicissimo artigiano muratore infatti, come nella tradizione di famiglia, il traguardo successivo sarebbe forse stato quello di diventare un piccolo “imprenditore edile”: come è poi avvenuto in particolare per lo zio Romeo che, successivamente, trovò anche il coraggio di trasferirsi stabilmente a Campobasso.
Nella prima delle cartoline, che costava allora 30 centesimi (delle vecchie lire) e che porta la data del 25 novembre 1931, il nonno si informa, innanzitutto, pur non citandone la tipologia, di come proceda il lavoro, soprattutto chiedendo a papà una previsione dei tempi ancora necessari per completarlo; sembra poi compiacersi del fatto che, sia pure senza l’aiuto dei figli e mettendosi all’opera molto presto al mattino, sia riuscito a collocare sul tetto di casa un nuovo “lucernario”: dal costo strabiliante di ben 140 lire, vetro compreso, ma che “lasciava passare una buonissima luce”.
Lo informa poi che si dedicherà ad intonacare le pareti di una stanza preoccupandosi di lasciarvi il fuoco acceso affinché si asciughi nel più breve tempo possibile: aggiunge infine i suoi cari saluti anche da parte della moglie, la nonna Cristina, e dei suoi nipoti presenti a Capracotta, i miei cugini Cristinella, Cecilia e Carmine, e chiude con le parole, ormai tanto desuete: “tuo affezionatissimo padre”.
Nell’altra cartolina, datata 19 dicembre dello stesso anno, il nonno comunica prima di ogni cosa di essere quasi guarito da una fastidiosa affezione oculare, di cui residua solo una modesta componente emorragica; è commovente, poi, ciò che gli raccomanda di fare prima delle festività natalizie: provvedere alla corretta e completa retribuzione dei suoi operai ricorrendo, eventualmente, anche ad un prestito che non gli avrebbero certamente negato degli amici già residenti a Pescara: tanto più nel fondato timore che, a dicembre, le forti nevicate di Capracotta potessero impedire a chiunque di muoversi, oltre a comportare un grave disservizio postale.
Fa sorridere, ancora, un’altra e più pressante raccomandazione, sia pure del tutto superflua, a mio giudizio, per papà: “ti ricordo di non fare spese non necessarie”: essa ci dà anche l’idea di quanto, 90 anni fa fossero difficili i trasferimenti di denaro a confronto con le moderne potenzialità telematiche dei giorni nostri.
Ripensavo inoltre, con grande ammirazione, alla sostanziale correttezza lessicale e di fraseggio, oltre che di ortografia del nonno, tenendo conto del fatto che quella corrispondenza era in italiano in un momento in cui tutti, in paese, parlavano solo il dialetto: si trattava, ricordo, di persone con la semplice licenza di scuola elementare!
Riflettevo infine alle grandi e sostanziali differenze tra i modesti contenuti epistolari di quelle cartoline e quelli dei moderni sistemi di comunicazione attuali: di cui non sono certamente un conoscitore e, tanto meno, un esperto fruitore; sono tante, peraltro, le fonti autorevoli che documentano quanto spesso questi ultimi si siano rivelati inadeguati allo scopo per cui erano stati concepiti, oltre ad aver spesso favorito la disinformazione più assoluta o, addirittura un affievolimento, fino alla scomparsa, di ogni relazione umana degna di questo appellativo.
Basta per questo ricordare l’assurdità di alcuni messaggi supersincopati, per non citare tutti i sistemi finalizzati a vere e proprie truffe o ad altri reati che tali modalità di comunicazione hanno favorito: ed anche l’estrema facilità, in molti casi, di far circolare notizie del tutto prive di veridicità, le così deprecabili “fake news”.
Perciò non è casuale che la mia attenzione sia stata attirata da un editoriale comparso nell’inserto festivo (27/3/22) del diffuso quotidiano, “IL CORRIERE DELLA SERA”; era intitolato “LE NUOVE PAROLE DI UN MONDO NUOVO” che, secondo me, si riferisce piuttosto alla riscoperta ed al corretto loro impiego in un mondo che ci siamo solo illusi fosse già “nuovo”: cosa che invece gli accadimenti attuali non sembrano proprio dimostrare.
Perciò, sia pure rifuggendo da anacronistiche nostalgie, mi ha parimenti colpito nello stesso articolo quello che diceva lo scrittore Andrea Camilleri: “Stiamo perdendo la misura, il peso, il valore della parola. Le parole sono pietre. Le parole possono trasformarsi in pallottole. Bisogna pesare ogni parola…”.
Lo stesso editoriale informava che, prendendo spunto da un suo album, il cantautore Giovanni Caccamo, ha lanciato l’idea di un sondaggio universitario internazionale denominato “Parola ai giovani” con il quesito “Cosa cambieresti della società in cui vivi ed in che modo?”; basato su diverse “parole chiave di cambiamento” suddivise in tre ambiti, socio-culturale, ambientale e spirituale, è suggestivo che ognuna di esse trovi riscontro in diversi brani musicali di diversi autori: “Luce, Natura, Rivoluzione (pacifica), Dialogo, Evoluzione, Fiducia”; ma se ne potrebbero aggiungere diverse altre, come “Guerra”, così dolorosamente tornata di grande attualità o come quella proposta a mo’ di esempio da Giovanni Caccamo: “Gratitudine”:
“Ogni giorno cerco 10 cose per cui essere grato. Un cambio di prospettiva che aiuta a sentirci amati e di conseguenza ad amare”.
Ora, pur augurando di vero cuore tutto il successo che merita all’iniziativa appena citata, non riesco ad intravedere se, quando e quanto essa riuscirà davvero a far riscoprire, soprattutto ai giovani, la bellezza di un “mondo nuovo”.
Questo traguardo è certamente molto difficile da raggiungere, ma non vanno dimenticate, sempre restando al citato editoriale, le parole del maestro Camilleri:
“Voglio morire con la speranza che i miei figli, i miei nipoti ed i miei pronipoti vivano in un mondo di Pace”
Si tratterà forse di ripartire, come anche papa Francesco ci ricorda., da quell’ “umanesimo delle parole” e delle “relazioni interpersonali” che io vedo molto ben espresso nelle cartoline postali, pur così semplici e disarmanti, scritte 90 anni fa’ dal nonno Carmine: un vero e proprio “ritorno al futuro” a mio giudizio (o forse all’antico”?) ma che deve riprendere le mosse dal nucleo più elementare della società, la famiglia.
Aldo Trotta