Catherine Deneuve in una sequenza del film “Pelle d’Asino”
Una madre aveva un’unica figlia chiamata da tutti Belloccia, tanto era bella. La mamma, che era fatata, solveva tutte le mattine allontanarsi per affari, ma aveva la buona abitudine di chiudere la figlia a chiave, perché non uscisse e nessuno la visitasse. Nel frattempo, Belloccia, governava gli animali di bassa corte: conigli, galline, colombi ecc. e, siccome in quei tempi mangiavano anche gli essere inanimati, così governava la sedia, la credenza ecc. Una mattina, però, fosse caso o proposito, Belloccia non diede nulla al mortaio. Il figlio del Re, che di Belloccia era segretamente innamorato, la indusse a fuggire. Essendo tutte le porte chiuse, Belloccia scese, scivolando lungo il muro.
Tornata la madre, e non vedendo la figlia, andò dappertutto chiamandola, ma invano. Allora il mortaio, che per Belloccia era rimasto digiuno, disse: «Tuppetuppé, tuppetuppé, figliata è iuta che ru figlie de ru Re». Il gallo, però, che da Belloccia era stato sempre ben trattato, rispose: «Chichiricchì che non è vero». La madre, affatata com’era, inseguì i due fuggitivi, e vedendoli in lontananza, esclamava:
«Belloccia, rivoltati». E lo sposo: «Non darle retta». E la madre a disperarsi. Infine, Belloccia, commossa a quelle dolorose preghiere, si voltò e la madre, imprecando, disse: «Possa tu diventar testa d’asino!». E tale divenne in un fiato. Lo sposo, pieno di rabbia e di dolore, non potendo in quello stato presentar Belloccia alla famiglia, la menò alla masseria, dove l’accomunò alle galline ed ai maiali. Intanto, l’altro figlio del Re, faceva all’amore con una fanciulla, che di bello non aveva che il nome, Rosalba. E dire che i fratelli, un tempo, si erano tante volte bisticciati, ognuno lodando la bellezza della sua donna.
Un giorno il Re manifestò il desiderio d’avere a pranzo le promesse spose dei figliuoli, a patto, però, che ognuna portasse un vestito lavorato con le proprie mani, per vedere quale fosse più virtuosa. Belloccia, come lo seppe dallo sposo, si disperò ma, ad un tratto, quasi ispirata, disse alla serva: «Vai sotto alla casa di mia madre e grida: Chi ha cenci da vendere per Belloccia!». La domestica così fece e, alla sua voce si affacciò la madre di Belloccia, la quale, chiesto e saputo il fatto, disse alla fantesca: «Vattene che ci penso io». Qualche giorno dopo fece tenere alla figlia una scatola contenente un vestito principesco. Arrivata l’ora, Belloccia fu presentata al Re, il quale vedendola tanto brutta, rivolse gli occhi a Rosalba, compiacendosi della bellezza di lei. Quando, però, Rosalba presentò il vestito, il Re non lo volle, perché ordinario. Quello di Belloccia, invece, fu oggetto delle generali meraviglie ed il re lo gradì di cuore.
Il giorno degli sponsali, intanto, si avvicinava. Belloccia non era riuscita a persuadere lo sposo a lasciarla in pace, essendo lei così brutta. Ma tutto fu inutile. – T’ho amata quando eri bella, e perché dovrei lasciarti ora che sei brutta?- Belloccia, allora, pensò di mandare la solita serva dalla mamma. Come costei seppe lo scopo della visita, mandò due catini, di cui uno grande e l’altro piccolo, due giarre di acqua e un braciere di fuoco. La vigilia delle nozze, Belloccia si lavò nel bacile grande ripieno dell’acqua d’una delle due giarre, dicendo: «Faccia d’asino, come sei brutta!» e se la strappò e la buttò nel fuoco. Poi, si lavò nell’altro catino con l’acqua dell’altra giarra e si rimirò all’altro specchio. E diventò più bella d’una regina. Grande fu la gioia e lo stupore dello sposo, vedendo la brutta Belloccia trasformata in una bellissima giovane. Per la rabbia e l’umiliazione l’altro figliuolo del Re differì gli sponsali.
L’Anonimo finì: «Io ebbi un pugno di soldi».
Oreste Conti
Fonte: O. Conti, Letteratura Popolare Capracottese, 2a edizione, Editore Luigi Pierro, Napoli, 1911