Riceviamo e pubblichiamo il discorso tenuto da Vincenzo Potena in occasione della riunione dei compaesani della classe d’età del 1927 svoltasi il 5 settembre del 1987 a Capracotta
Non ero certo di partecipare a questa riunione. Non solo motivi di lavoro impedivano- in un primo momento- la mia presenza ma anche un diffuso scetticismo ed una quasi indifferenza per questi riti.
Pensavo: ma sono capace -io- di riconoscere quelli che sono nati nel 1927? Ed in caso affermativo, cosa avrei potuto dire loro e da loro ascoltare? Abbiamo ancora qualcosa in comune- oltre l’anno di nascita ed una fonte battesimale- che ci lega e ci accomuna? Ed ancora: non siamo stati sconfitti da tutti quei piccoli e grandi problemi quotidiani che incombono su ognuno di noi, quelli spiccioli che la vita di sempre ci obbliga a vivere, sopportare e superare, la nostra salute, quella dei familiari, la sistemazione dei figli, il sorriso ed il pianto dei nostri nipoti, ormai indiscussi padroni delle nostre apprensioni e delle infinite ed impagabili gioie che essi ci procurano.
Ho finito per decidere di partecipare e, da come vanno le cose, sono certo che non avrò a pentirmene.
Abbiamo 60 anni? Siamo uomini ed avendo percorso buona parte del cammino che ad ognuno di noi è dato percorrere, ritengo giusto che ognuno di noi faccia un onesto bilancio di questo arco di vita ma senza imbrogliare o barare.
Abbiamo avuto la ventura (o la sventura)- dipende dai punti di vista- di nascere in un paese posto alla fine del mondo e su un altopiano che spazia a 360 gradi; un paese che i miei amici stentano a credere che esista veramente. Per soprammercato, ha un nome che, diciamoci la verità, fa ridere. Ma quando siamo nati non potevamo sottilizzare sul nome del paese tramandatoci dai nostri antenati.
Siamo nati in un paese che contemporaneamente ci trattiene col suo fascino nascosto e ci scaccia costringendoci ad ingrossare quell’esercito definito spregiativamente ma anche con rispetto “Zingari di Capracotta”.
E’ veramente amaro dover abbandonare l’ombra del campanile natio ed assumere la condizione di figliastri in quei paesi, città o Stati ove riaffondiamo le nostre radici per poter sopravvivere. Ma noi capracottesi abbiamo il coraggio e la dignità di affrontare e superare simili dolorosi distacchi e conquistare il rispetto, la fiducia e l’ammirazione di quei cittadini ove abbiamo piantato le nuove radici.
Siamo nati in un anno- il 1927- che sta quasi a cavallo della più grave crisi economica che il mondo moderno abbia mai dovuto superare; iniziatasi nel 1929 (avevamo si e no 2 anni) e conclusasi con una serie di guerre (Etiopia, Spagna, II Guerra Mondiale).
Siamo nati in un periodo di miseria nera per tutti e l’economia del capracottese non si fondava- come sarebbe stato giusto- mediante lo scambio di beni e servizi col denaro ma, puramente e semplicemente col sistema del baratto elevato a dignità di sistema economico. Ed era l’unica cosa che si potesse fare. In pratica, avveniva che Mingo di Marco ristagnava la SARTACENA o RU PULZNETT a Gregorio la Munnarella senza ricevere in cambio nemmeno un soldo, ma ad Ottobre-Novembre, Gregorio, andava in casa di Mingo e gli confezionava o riparava le scarpe, ed anche Gregorio non riceveva nemmeno un soldo. Così facendo, avevano dato vita ad una perfetta economia di baratto. E così via tra sarti e calzolai, tra muratori e falegnami, tra artigiani e “gualani”.
La faccia del re non la vedeva quasi nessuno e il dipendente comunale, pur nella miseria del suo stipendio, era quasi un privilegiato perché dal Comune o dallo Stato, era pagato con danaro contante, ed alla fine, lui riusciva a vedere come era fatta la faccia del re.
Siamo nati in un paese in cui avere l’acqua in casa era un lusso e la mia famiglia era una delle poche privilegiate per il semplice motivo che mio padre- calderaio ed affine- s’era fatto da sé l’allacciamento. Mancando l’acqua, mancavano i servizi igienici. Per bilanciare questa carenza, era stato inventato un rito mattutino o serale e cioè far sporgere da una finestra un braccio che reggeva un vaso da notte (pisciaturo) ovviamente pieno e, senza guardare chi passasse, lo si rovesciava sulla strada e chi colpiva, colpiva. Seguivano le immancabili bestemmie ma ognuno si consolava pensando: “Oggi a te domani a me”.
Siamo nati in un paese ove la mortalità infantile spazzava senza pietà i più deboli e credo di poter dire che, per essere sopravvissuti alle tante febbri, diarree, e polmoniti; eravamo organicamente i più forti cioè coloro che hanno resistito e vinto le avverse condizioni sub-animali.
Oggi, ho l’orgoglio di poter ricordare le avversità trascorse, ma soprattutto ho il piacere- anzi la gioia- di poter dire che sono e siamo orgogliosi di essere nati a Capracotta (ed in quell’anno) perché essere nati a Capracotta, una volta- e mi auguro ancora oggi- era sinonimo di: DIGNITA’ – FIEREZZA – ONESTA’ MORALE E MATERIALE – ORGOGLIO – UMILTA’. Il capracottese per vocazione si sentiva uguale fra gli uguali.
Quella capracottese era una società di essere umani che per istinto sposava la libertà e faceva sua la dignità di essere uomo. Non c’era prezzo per questa dignità, scaturente da una coscienza adamantina, non disposta ad alcun compromesso né con sé stesso, né con i terzi.
Il capracottese conosceva un solo pronome personale: il TU. Ignorava il VOI e disprezzava il LEI. Usava cioè il pronome degli antichi romani e del Vangelo. Per il capracottese non esiste il Sig. o Dott. Vincenzo Potena ma semplicemente Vincenzino di Mingo di Marco o Renato, il figlio di Oreste D’Andrea.
Il più umile dei pastori o il più nero dei nostri carbonai, rivolgendosi ad un re gli davano del TU, ma rivolgendosi ad una persona anziana lo appellavano dolcemente “SIGNURIA” rispettosi della canizie degli anziani ed affascinati dalla forza della sua saggezza.
Per il capracottese era innato il senso dell’equità tanto è vero che ha sempre avuto a disposizione un Conciliatore ed un Pretore in loco. Ma era molto raro che un capracottese si rivolgesse ad un giudice togato per avere la sua giustizia. La sua giustizia era più celere, efficace se demandata ad un arbitrato con la conseguenza che Giudici ed Avvocati da noi non sono stati mai amati mentre per i rissosi figli di Castel del Giudice e Pescopennataro, fare una causa a Capracotta era come per noi mangiare una patata.
Sono grato per ciò che ho ricevuto dal Sig. Maestro Ottorino Conti cioè le lezioni e le “spalmate”. Se oggi, so mettere insieme le 4 parole che vi sto leggendo, lo devo anche a Lui. Ed anche ad Ottorino Conti devo riconoscenza se nella vita ho saputo accettare le meritate punizioni come a suo tempo accettavo- guardandolo negli occhi- quelle spalmate che facevano arrossire e bruciare i polpastrelli delle mani aperte e tese in avanti per riceverle.
Negli anni della fanciullezza mi è mancato lo spazio, il bosco, la campagna, i prati coi suoi “ciammarluott”, la creta per fare i pupazzi, l’orizzonte chiuso da Monte Campo – Monte Capraro. Prima di lasciare Capracotta, credevo che tutto il mondo fosse racchiuso entro questi confini e che non potesse esserci altra vita se non quella che avevo vissuto fino al 13 Ottobre 1937. Da quel giorno ho appreso che esistevano altre pianure, montagne, le navi, la città ed altri dialetti. Quel 13 Ottobre avevo finito di leggere una favola durata 10 anni per iniziare ad interpretare la commedia della vita che, dopo 50 anni, continua fino a quando vorrà il buon Dio.
Avrei tante cose da dire ma ho il dovere di non annoiarvi con la nostalgia che è un sentimento bello ma carogna.
Ringraziando il Signore, abbiamo raggiunto i 60 anni. Non importa se abbiamo o meno i capelli in testa, se sono bianchi, se abbiamo la testa pelata, se non siamo più scattanti e se abbiamo il sopraffiato per il pancione. E non importa nemmeno se qualcuno di noi o tutti noi abbiamo rinunciato a quell’atto d’amore da cui scaturisce la vita nuova trasmessa ai nostri figli e quindi la continuazione di noi stessi.
A mio modesto avviso, importa essere vivi con la mente. Importa essere fieri di ciò che si è stati e di ciò che si è riuscito a costruire in modo onesto, pulito, cristallino. I beni materiali aiutano a vivere meglio la vita ma, se mancano, non è il caso di farci prendere da quel perverso sentimento che è l’invidia.
Termino invitando tutti voi ad amare Capracotta, senza confondere l’amore per Capracotta con l’interesse personale. Già oggi Capracotta non è più quella che noi vorremmo. Diciamocelo francamente: il comportamento dei nostri figli e nipoti, certe volte rasenta il comportamento di un’orda di barbari. Non esiste più il rispetto reciproco e quello che una volta l’educazione- da sola- suggeriva o imponeva quando si aveva a che fare con gli anziani, con le cose comuni e le cose private.
Invito i residenti di Capracotta ad essere attenti ai cosiddetti progetti turistici da attuare nell’ambito del territorio di Capracotta.
Mi auguro di sbagliare ma, attuandosi detti progetti, l’armonia e la tranquillità di Capracotta- già oggi precarie- andranno a farsi benedire per l’arrivo dei nuovi barbari cittadini senza alcun serio beneficio per la residente popolazione- salvo chi avrà fatto la sua brava speculazione.
E non essendo questa la sede per trattare simili problemi, v’invito a continuare in letizia questo incontro. E come gli ebrei della diaspora che incontrandosi si scambiano il seguente augurio: “L’anno prossimo a Gerusalemme” così io auguro a me stesso ed a tutti voi: “L’anno prossimo a Capracotta in salute, letizia e serenità”.
Vincenzo Potena