Si può avere idea circa la morte a Capracotta interpretando il significato dei proverbi che su quell’argomento sono stati coniati nel corso del tempo. L’ineluttabilità, la fine obbligata della vita, l’abbandono di ogni ricchezza, il passaggio all’aldilà, ove si è sempre detto che si vive la miglior vita, la speranza quasi certezza di rivedersi un giorno con chi da poco ha finito di vivere, l’allusione al riposo con la morte, dopo una vita stentata piena di duro lavoro, l’ invito al morto a salutare un parente dei visitatori, se lo incontrava in cielo, e ancora l’incitamento al prete ad ungere abbondantemente con l’olio che non si paga il proprio caro deceduto.
Non mancano espressioni circa il ricordo rispettoso del defunto nel mentre lo si nomina, la facilità di emettere diagnosi e prognosi da parte di parenti e amici che si premuravano di far visita a chi giaceva a letto in condizioni di salute non… certamente floride, la manifestazione di profondo dolore per la perdita di un caro che avrebbe portato a morte chi di questi ne soffriva la dipartita.
Ma se tali proverbi rappresentavano il risultato sulla meditazione della morte in modo sereno, obiettivo, razionale, incasellata in una cornice di vissuta visione cristiana, affidandosi, alla fine, alla protezione divina, dopo che ogni tentativo medico esperito non aveva sortito alcun effetto positivo, difforme e, per certi versi direi plateale, la effettiva partecipazione al dolore a morte avvenuta di un congiunto.
Ho potuto osservare in tali situazioni la presenza corale di familiari, parenti e amici dal momento della ferale notizia con la visita a casa del defunto per la dimostrazione di una affettuosa vicinanza in un momento di dolore, la presenza alle funzioni religiose, e fino all’accompagnamento all’estrema dimora del trapassato. Si completava tale dimostrazione di vicinanza ai parenti prossimi del defunto con l’invio a costoro del “consuolo”, cibo preparato da mani amiche per quelli che tornavano dal camposanto.
Le morti improvvise e immature, la perdita di genitori con prole in tenera età, gli esiti mortali di traumatismi gravi ecc. in epoche passate scatenavano nei parenti prossimi del morto tutta una serie di manifestazioni direi tragiche: capelli che si strappavano tra elevate grida di dolore, gambe che si percuotevano violentemente , guance che si graffiavano a sangue .Era la rappresentazione del dolore nella sua più elevata drammaticità, dettata da situazioni ataviche, culturali, ambientali di allora, Un dolore, il cui carico era materializzato da una femminile completa nera vestizione per tutta la vita. Degne di menzione le lamentazioni monotone e melanconiche da parte delle donne prossime al defunto, nelle quali ricorreva frequentemente il nome del caro estinto, insieme al ricordo di fatti salienti della sua vita: memoria antica di donne romane – loro a pagamento- che, tutte coperte di tuniche nere, le prèfiche- intonavano salmodie, elogiando il soggetto deceduto.
In questi momenti di così grande dolore e pianto, per quanto spesso si è sentito riferire, non sono mancate occasioni di ilarità scatenanti spesso risate collettive a stento trattenute da parte dei presenti in visita al defunto. Persone estranee o facenti parte della famiglia dell’estinto che, conversando tra loro, anche se la circostanza non induceva certo all’ilarità, citavano situazioni estranee o insite alla ferale visita che, per il loro contenuto, scatenavano il ridere dei presenti.
In riferimento a risa inopportune, si riporta quanto si è venuti a conoscere in occasione della morte del banditore Giacinto Conti anni or sono.
Viene raccontato che, nel mentre in casa, con il morto disteso sul letto, alla presenza di diverse persone in visita, la cognata di costui, piangendo insieme ad un ritmato lamento, ripeteva costantemente: “Oh cuannellone miè, oh cuannellone miè” (Oh grosso matterello mio, oh grosso matterello mio, ndr).
La frequente espressione scatenò le risa degli astanti, in quanto costei, dominata dal dolore, senza alcun freno inibitore, non si era resa conto che ripetutamente sbagliava, alterando il significato della parola Infatti il termine “cuannellone”, nel nostro dialetto indica “ru cuannieglie” ovvero il matterello, che, nel caso in esame, inteso quale accrescitivo, era lungo, rotondo e doppio.
L’addolorata avrebbe dovuto, invece, dire “oh cuainatone miè, oh cuainatone miè” significando “oh cognatone mio, oh cognatone mio”, ma di questo accrescitivo non se ne conosce la causa, senza alcun riferimento al matterello.
I presenti, indirizzarono, con insidiosa malizia, i loro pensieri non certamente alla preparazione di tagliolini, dolci o “sagne” ma a ben altro… che nulla aveva a che fare con il matterello.
Non si sa quale fu la reazione con la conseguente spiegazione di tale situazione tragicomica da parte della stessa, allorquando si rese conto che era stata proprio lei a scatenare la risata collettiva.
Felice dell’Armi